La nota della Cesi sul “fine vita” ha riaperto anche in Sicilia il dibattito su un tema delicato come pochi, che tocca da vicino l’esistenza e il dolore di chi soffre e delle famiglie coinvolte.

E non possiamo negare che perfino tra i cattolici ci siano visioni diverse, con un numero sempre più crescente di credenti che dichiara, o scrive sui social, di essere favorevole al suicidio assistito.

Una convinzione che può essere frutto di una vera riflessione personale, conseguenza di un’esperienza vissuta con dolore ma che può anche scaturire da un giudizio affrettato o da una mancata conoscenza di quello che il Magistero della Chiesa insegna.

Proviamo quindi a fare chiarezza, evitando i facili slogan che magari strappano qualche complimento sul web ma non aiutano chi ascolta o legge a comprendere pienamente quello di cui si parla.  

Una doverosa premessa

Prima, però, è bene fare una doverosa premessa. Il dibattito sul “fine vita” non può mai prescindere dal rispetto, dalla comprensione e dalla profonda compassione verso chi affronta una malattia terminale o vede una persona cara soffrire.

Una condizione, unita a una profonda solitudine, che spesso spinge a gesti o pensieri estremi come la tentazione di farla finita per evitare un dolore considerato insopportabile. Di fronte alla sofferenza non possiamo che farci prossimi con ogni possibile delicatezza, evitando inutili giudizi che suonerebbero solo come ingiusti.

Il mistero della sofferenza

L’interrogativo di fondo è sempre lo stesso: perché Dio permette la sofferenza? Una domanda che sorge quasi spontanea, specie quando ci troviamo di fronte alla malattia di un bambino, al dolore di un innocente o alla violenza della guerra.

Non ci sono risposte facili, a questo come ai grandi quesiti sull’esistenza. La vita è fatta di cose belle e meno belle, di momenti felici e infelici, di grandi gioie ma anche di delusioni, sconfitte ed episodi che provocano dolore. Cose che vorremmo inconsciamente evitare ma che fanno parte dell’esperienza umana e che qualche volta servono anche a crescere e a darci la forza di andare avanti.

Nessuno vorrebbe soffrire per amore o affrontare una malattia, così come nessuno vorrebbe morire. Ma non è possibile evitarlo. Però se ci pensiamo anche la sofferenza può avere un senso: prendiamo in considerazione il parto, un’esperienza dolorosa che lascia subito il posto alla gioia di una nuova vita. O il caso di uno studente deve faticare per superare un esame, di un atleta che deve allenarsi per vincere una gara o di un musicista che ha bisogno di esercitarsi per ore per eseguire correttamente un brano.

Piccoli esempi che ci dicono che la vita è fatta anche di questo. E a insegnarcelo ci pensa un Dio che, incarnandosi, ha assunto la condizione umana nella sua totalità, eccetto il peccato ma comprese le sofferenze, arrivando a sudare sangue. Un Dio che, anziché salvarci con uno schiocco di dita, si è fatto uomo e ha scelto la via del dolore, di una morte violenta come può essere quella sulla croce. Un momento di dolore prima della gioia della risurrezione.

E quindi qual è la risposta alla domanda iniziale? Non c’è o forse non ce n’è una sola. Le Scritture però ci offrono l’esempio di Giobbe, un uomo che affronta le sofferenze peggiori, perfino la perdita dei figli, salvo poi capire, solo alla fine, che non ci sono risposte se non nella presenza consolante di Dio che non ci lascia mai, soprattutto nei momenti più difficili.

“Alle persone che sono nel dolore – scrive Luciano Sandrin nel libro ‘La resilienza di Giobbe’, Editoriale Domani – Dio rivela il proprio volto facendosi presente. A Giobbe vuole far comprendere che gli è accanto, si preoccupa di lui come fanno un padre e una madre con il loro bambino, specialmente quando è nell’angoscia e cerca un volto che lo rassicuri”.

L’accanimento terapeutico

La Chiesa, contrariamente a quel che pensano alcuni, non gioisce della sofferenza dell’uomo e non accetta quella che è inutile. E’ il caso dell’accanimento terapeutico, di cui l’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei, nel volume “Alla sera della vita” (Editoriale Romani), offre una definizione molto chiara: “l’attuazione di trattamenti dai quali non si possa ragionevolmente attendersi un beneficio per il paziente, sia esso il prolungamento della vita, sia alcun beneficio in termini di miglioramento della sua qualità”.

Un concetto espresso chiaramente nella Lettera “Samaritanus bonus” della Congregazione per la Dottrina della Fede del 2020: “Tutelare la dignità del morire significa escludere sia l’anticipazione della morte sia il dilazionarla con il cosiddetto ‘accanimento terapeutico’”. Un giudizio, quello sulla utilità o meno delle cure, che spetta al medico col consenso del paziente o dei familiari.

Da qui l’invito dei vescovi italiani e siciliani ad attuare la legge sulle cure palliative che servono proprio a evitare inutili sofferenze.

Il suicidio assistito

Diverso è il caso del “suicidio assistito” e dell’eutanasia, “azioni o omissioni dirette a procurare la morte e pertanto illecite”, si legge nella “Samaritanus bonus”. Questo perché ci troviamo di fronte non a una vita ormai giunta al termine ma a una morte che viene indotta.

Questo non significa ignorare il dolore o l’angoscia di chi vive condizioni che considera insopportabili, a cui va garantita continua e piena assistenza, sia medica che spirituale.

Significa semmai dire che ogni vita, in quanto tale, ha una sua dignità e merita di essere vissuta. Al contrario, se accettassimo l’idea, tipica della società di oggi, che solo una vita “in salute” merita di essere portata avanti, rischieremmo di considerare di “serie B” tutti gli ammalati. In pratica, quella “cultura dello scarto” condannata da Papa Francesco.

Secondo la Chiesa, approvare il suicidio assistito significherebbe sdoganare il principio secondo cui “la vita viene considerata degna solo se ha un livello accettabile di qualità, in ordine alla presenza-assenza di determinate funzioni psichiche o fisiche, o spesso identificata anche con la sola presenza di un disagio psicologico. Secondo questo approccio, quando la qualità della vita appare povera, essa non merita di essere proseguita. Così, però, non si riconosce più che la vita umana ha un valore in sé stessa” (Sb).

Né si può equivocare la compassione: “In realtà – si legge in Sb – la compassione umana non consiste nel provocare la morte ma nell’accogliere il malato, nel sostenerlo dentro le difficoltà, nell’offrirgli affetto, attenzione e i mezzi per alleviare la sofferenza”. Una posizione che nasce dall’esperienza che ogni giorno presbiteri, religiosi, ministri straordinari e operatori pastorali compiono in ospedali, ospizi e case di cura, dall’impegno profuso dall’Ufficio Cei per la pastorale della salute che organizza corsi e iniziative on line, dimostrando un’attenzione al tema che poche altre realtà possono vantare.

La Chiesa deve tacere?

Una posizione che è in realtà condivisa anche da tanti non cristiani perché, oltre ad avere fondamenti religiosi, è innestata in una visione antropologica che guarda al bene della persona.

La semplificazione ricorrente che vorrebbe la Chiesa ferma su posizioni anacronistiche e contrarie alle libertà personali fa a pugni con la realtà. Non tutti i malati ricorrerebbero all’eutanasia e non bisogna essere per forza credenti per difendere la vita.

Né si può provare a far tacere la Chiesa, composta (lo ricordiamo) non solo da vescovi e sacerdoti ma anche da laici che hanno il diritto e il dovere, come cittadini, di prendere posizione. Falsa anche l’accusa secondo cui il Parlamento italiano non legifererebbe sul “fine vita” per presunte ingerenze: le leggi su aborto e divorzio hanno dimostrato che il nostro Paese non è soggetto ai condizionamenti di cui tanto si parla. La difficoltà delle forze politiche sta semmai nel trovare una sintesi su un tema etico che rischia di essere divisivo, indipendentemente dalla fede che si professa.

L’idea di società

C’è un ultimo aspetto su cui vale la pena soffermarsi. Una società non è una semplice sommatoria di individui che, casualmente, vivono nello stesso luogo, slegati fra loro; una società ha una storia alle spalle, è regolata da leggi e norme che sono lo specchio di principi e valori morali condivisi.

Chiedere di legalizzare il suicidio assistito, lasciando poi all’individuo la scelta di ricorrervi o meno, non è nemmeno la soluzione: oltre a implicare il coinvolgimento di medici e sanitari, sarebbe la negazione di principi morali radicati nella nostra cultura e dell’idea stessa di una società che ha il dovere di prendersi cura di chi sta peggio.

La battaglia da combattere è infatti per un sistema sanitario che garantisca cure efficaci e, quando necessario, palliative a tutti; per una società che si faccia veramente carico degli ammalati e delle loro famiglie, non lasciando nessuno indietro ed evitando che la disperazione e la solitudine portino a scelte estreme.

Per approfondire

I Vescovi siciliani preoccupati per il DDL sul fine vita

Le considerazioni moralmente errate di don Cosimo Scordato sul fine vita

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Di Roberto Immesi

Giornalista, collabora con Live Sicilia, è Revisore dei Conti dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia e Presidente dell’Unione Cattolica Stampa Italiana (UCSI), sezione di Palermo.