Il modo di celebrare di papa Francesco non ha lasciato indifferenti. Sarebbe da ipocriti non dirlo. Ha fatto discutere, dentro e fuori la Chiesa. Cerimonieri, liturgisti, preti, teologi e persino non credenti si sono interrogati su quella sua postura sobria, quasi disadorna, all’altare.

Per alcuni, un segno di trascuratezza. Per altri, un salutare ritorno all’essenziale. Per qualche altro l’attenzione del Papa era sui poveri e non sui riti. In ogni caso, Francesco ha teso la corda — forse troppo, forse no — verso una direzione: quella dell’essenzialità.

Non sempre le forme da lui attuate nella celebrazione hanno aiutato a cogliere il Mistero celebrato perché velato dalla eccessiva semplicità. Altre volte il suo fare si contrapponeva alle abitudini ormai consolidate nelle nostre prassi pastorali e liturgiche. Eppure, proprio in quella povertà di stile si celava una fedeltà ostinata: non alla liturgia come opera figlia di tecnicismi, ma come luogo da abitare.

Non era un “cultore” della liturgia nel senso accademico, diciamocelo, non ne maneggiava le finezze come un artigiano del sacro, ma ne custodiva il cuore con la passione e la testardaggine dei profeti. Non si è mai atteggiato a regista del rito, ma non possiamo dire di non aver camminato dentro il Mistero come un pellegrino, coi piedi impolverati, il cuore desto, lo sguardo fisso sul Risorto, Colui che rende bella ogni cosa.

Liturgia e comunione

“La liturgia è vita, non un’idea da capire”, ha più volte affermato, con quel tono da pastore che sa portare l’invisibile dentro la carne delle cose. Fin dai primi passi del suo pontificato, la liturgia non è stata per lui una questione di forma, ma di comunione. O meglio: di forma che nella bellezza genera comunione. Nella Evangelii gaudium lo aveva detto chiaramente: la Chiesa evangelizza anche attraverso la bellezza della liturgia (n. 24). Non c’è liturgia autentica se non si lascia attraversare dal grido del mondo e dalla carne ferita della storia.

Figlio del post-Concilio

Primo papa figlio del post-Concilio, ha riconosciuto nella riforma liturgica il respiro dello Spirito che, donato ai Padri conciliari, ha offerto un passo avanti per la vita e la missione della Chiesa di Cristo per le strade di questa storia. Il Concilio, il Papa lo sapeva bene, non ha inventato nulla: ha restituito alla liturgia la sua vocazione originaria, essere “fonte e culmine” della vita cristiana, e il Papa lo ha rimodulato nel suo magistero generale e liturgico in particolare, non costruendo cattedrali di parole ma accendendo fuochi di senso.

Emblematica, in tal senso, la dichiarazione pronunciata alla 68ª Settimana Liturgica Nazionale (24 agosto 2017): “La riforma liturgica è irreversibile”. Parole nette, un sigillo pastorale di fedeltà al Concilio. Il suo era un appello alla verità della liturgia: tornare alle sorgenti, non per nostalgia ma per riscoprire la freschezza del Vangelo celebrato.

Niente indietrismi, aveva detto ai membri dell’APL nel settembre 2021. Ha in quell’occasione ricordato che la tradizione liturgica è rendere vivo qualcosa e non custodire cenere. Ha chiesto alle Chiese locali di interiorizzare le ragioni della riforma liturgica, superando letture superficiali e pratiche deformanti.

Il desiderio di Cristo

Eppure il vertice del suo insegnamento, la vetta da cui si vede tutta la valle, resta la lettera Desiderio desideravi. In quelle pagine, pubblicate nell’estate del 2022, Francesco ha messo a nudo il cuore del suo magistero liturgico: un cuore che batte al ritmo del desiderio di Cristo.

“Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi” (Lc 22,15): non è solo un’introduzione a una riflessione liturgica, ma un compendio di tutta la teologia liturgica del Papa. Ogni Messa è la risposta a quel desiderio originario che il Signore Gesù ha messo nel cuore dell’umanità. Ogni gesto rituale, se vissuto con amore e compiuto nella verità, è un’eco di quella voce del Maestro di Nazareth che, nel silenzio dell’Eucaristia, continua a chiamare. E questa voce risuona in un popolo che, da un confine all’altro della terra, loda, ama e incarna il dono che in essa si celebra.

Così la liturgia non è solo memoria, ma diventa la carne viva di una chiamata che non smette di risuonare, che si fa carne nella vita di chi, in Cristo, trova la sua vera e definitiva risposta. Come un padre che raduna i figli attorno al focolare, il Papa allora, scrive con affetto e gravità, facendo memoria del desiderio ardente di Cristo (cf. Lc 22,15). Quel desiderio, dice, attraversa la storia e si fa presente in ogni celebrazione. “La liturgia è il luogo dell’incontro vivo con Lui” (DD, 10) ed è proprio in questa esperienza che la Chiesa si lascia plasmare.

Una formazione integrale

La lettera è un invito alla mistagogia: è il cammino di chi, riconoscendo il mistero che ci è dato, si lascia plasmare da esso, trovando in ogni gesto liturgico un’occasione per entrare in una comunione più profonda con il mistero di Cristo. Francesco si rivolge non agli specialisti ma a tutto il popolo di Dio, sollecitando una formazione liturgica integrale, capace di tenere insieme intelletto e affetto, rito e vita. Una formazione dalla e alla liturgia.

Si sofferma allora sulla bellezza del gesto rituale, sulla qualità della partecipazione, sulla necessità di custodire la centralità del mistero pasquale. Non c’è spazio per nostalgie o derive ideologiche: “Smettiamola di contrapporre il ‘vecchio’ e il ‘nuovo’” (DD, 31). L’unica forma della liturgia romana, afferma, è quella scaturita dalla riforma conciliare.

“Con questa lettera – scriveva Francesco – vorrei semplicemente invitare tutta la Chiesa a riscoprire, custodire e vivere la verità e la forza della celebrazione cristiana. Vorrei che la bellezza del celebrare cristiano e delle sue necessarie conseguenze nella vita della Chiesa, non venisse deturpata da una superficiale e riduttiva comprensione del suo valore o, ancor peggio, da una sua strumentalizzazione a servizio di una qualche visione ideologica, qualunque essa sia” (DD 6).

Riscoprirne la bellezza

Per Papa Francesco, i nemici della liturgia sono quelli che da sempre l’hanno minacciata: lo gnosticismo e il neopelagianesimo, figli della mondanità spirituale. Il Papa sottolinea che “la continua riscoperta della bellezza della liturgia” non può mai ridursi alla ricerca di un estetismo rituale che si compiace esclusivamente della formalità esteriore di un rito o che si accontenta di un’osservanza scrupolosa delle rubriche.

Ma, aggiunge Papa Francesco, questo non deve in alcun modo giustificare l’atteggiamento opposto, che scambia la semplicità con la sciatteria, l’essenzialità con una superficialità ignorante e la concretezza dell’agire rituale con un funzionalismo pratico che svuota il gesto liturgico di ogni profondità. La liturgia non è né una mera formalità, né una semplificazione vuota ma una realtà che chiede di essere vissuta nella sua bellezza profonda, in grado di parlare al cuore di ogni credente.

Riscoprire il senso dell’umanità

Papa Francesco osserva che la post-modernità è un tempo in cui l’uomo si sente ancora più smarrito, privo di ogni punto di riferimento, immerso in un mondo senza valori, che appaiono ormai indifferenti, e orfano di tutto. In questo contesto di frammentazione, sembra impossibile intravedere un orizzonte di senso.

Ma, aggiunge il Papa, questo smarrimento è anche il peso dell’eredità lasciata dall’epoca precedente, segnata dall’individualismo e dal soggettivismo che rimandano ancora al pelagianesimo e allo gnosticismo. A ciò si aggiunge uno spiritualismo astratto che nega la vera natura dell’uomo, spirito incarnato, che in quanto tale è capace non solo di azione ma anche di una comprensione simbolica che lo connette alla realtà divina. La liturgia, pertanto, è un luogo in cui l’uomo può riscoprire il senso profondo della propria umanità, incarnata e simbolica, e rispondere alla chiamata di Dio che si fa carne nella realtà del rito.

Per il Papa è giunto il momento di “trovare i canali per una formazione come studio della liturgia”, un impegno che, pur essendo già stato avviato dal movimento liturgico, ha visto il contributo significativo di molti studiosi e istituzioni accademiche.

Una liturgia accessibile a tutti

Tuttavia, Francesco sottolinea che questa conoscenza deve essere diffusa ben al di là degli ambienti accademici, in forme accessibili a tutti. Ogni fedele, infatti, deve crescere nella comprensione del “senso teologico della liturgia”, che è la questione fondante e decisiva per ogni conoscenza e pratica liturgica. È un invito a immergersi nei testi eucologici, a cogliere la profondità dei dinamismi rituali e la loro valenza antropologica per poter rispondere con maggiore consapevolezza alla chiamata che la liturgia stessa esprime.

Il Papa rilancia così una pastorale liturgica viva e presente nelle parrocchie, nelle diocesi, nei seminari: una formazione che non sia solo teorica ma che si traduca in una pratica cristiana vivente. Una richiesta, forse, che ancora oggi non ha trovato pieno ascolto, nemmeno nel cuore dei Vescovi, ma che resta fondamentale per un rinnovato dinamismo nella vita ecclesiale.

L’ars celebrandi

Papa Francesco parla anche dell’importanza della presidenza della celebrazione. Scrive che, sebbene l’ars celebrandi coinvolga l’intera assemblea, i ministri ordinati sono chiamati ad avere per essa una cura particolare. Durante le sue visite alle comunità cristiane, ha osservato che il modo in cui queste vivono la celebrazione è spesso condizionato – nel bene, ma purtroppo anche nel male – dal modo in cui il parroco presiede l’assemblea.

Potremmo dire che esistono diversi “modelli” di presidenza. Il Papa indica quelli inadeguati: “rigidità austera o creatività esasperata; misticismo spiritualizzante o funzionalismo pratico; sbrigatività frettolosa o lentezza enfatizzata; sciatta trascuratezza o eccessiva ricercatezza; sovrabbondante affabilità o impassibilità ieratica”.

Nonostante la varietà di questi modelli, Francesco riconosce che la radice comune della loro inadeguatezza è un “esasperato personalismo” dello stile celebrativo che talvolta si manifesta in una “mal celata mania di protagonismo”.

Questo fenomeno si fa particolarmente evidente quando le celebrazioni vengono trasmesse in rete, un fenomeno sul quale il Papa invita a una riflessione attenta. Sebbene questi atteggiamenti non siano i più diffusi, non di rado le assemblee subiscono questi “maltrattamenti” che ne minano la verità e la bellezza.

Il volto della Chiesa

In questa lettera emerge un tratto pastorale di profondità straordinaria: Papa Francesco non si propone di difendere una riforma ma di custodire il volto della Chiesa che quella riforma ha reso visibile. Una Chiesa sinodale, fraterna, popolare, in cui la liturgia non è più una prerogativa esclusiva del clero ma un dono aperto a tutti.

Lo esprime con toni che fondono poesia e teologia: “Ogni gesto celebrativo è un gesto di comunione, un sì pronunciato insieme davanti all’amore del Signore”. In un tempo in cui molti sembrano cercare nella liturgia un rifugio identitario o uno strumento di polemica, il Papa ha detto con chiarezza che non può esserci un “doppio rito”. Non per rigidità, ma per fedeltà al Vangelo. Non per chiudere, ma per mantenere aperta quella soglia attraverso la quale la Chiesa si riconosce una, santa, cattolica e… conciliare.

Casa per tutti

In questa ottica, il Papa ha portato avanti alcune riflessioni e decisioni che sono tutt’altro che puramente giuridiche, ma che toccano nel profondo l’essenza ecclesiologica della liturgia.

In Magnum principium (3 settembre 2017) ha affidato alle Conferenze episcopali la maggiore responsabilità nella traduzione dei testi liturgici, sottolineando che la Chiesa locale non è un ramo secondario ma un soggetto pienamente coinvolto nell’atto liturgico. Non si tratta solo di una questione di linguaggio o di accuratezza teologica, ma di un gesto che riconosce l’autonomia e la responsabilità delle Chiese particolari nel celebrare il mistero di Cristo.

Nel ciclo di catechesi del mercoledì sulla Messa (2017-2018) e nel discorso alla Congregazione per il Culto Divino (2019), il Papa ha spesso sottolineato l’importanza della formazione liturgica affinché ogni membro della Chiesa possa comprendere e partecipare pienamente alla liturgia. Le riflessioni sulla valorizzazione dei ministeri istituiti, inclusi quelli per le donne (Spiritus DominiAntiquum ministerium), sono il frutto di questa stessa visione. Riconoscere che anche le donne possiedono una partecipazione piena al mistero battesimale implica che possano essere chiamate a ministeri liturgici ufficiali, non come una concessione ma come una necessità che scaturisce dalla loro identità cristiana.

Infine, con Traditionis custodes (2021), il Papa ha ribadito l’importanza di una liturgia che non sia un rifugio per pochi ma una casa per tutti, segnalando il rischio che una visione ristretta e settaria della liturgia possa ridurre l’universalità e la partecipazione del popolo di Dio. Francesco ha detto no alle derive autoreferenziali, a quella “nostalgia senza discernimento” che rifiuta il cammino del Concilio ripiegandosi su forme che appagano l’identità ma svuotano il Vangelo. Lo ha fatto con la dolce fermezza di chi ama la Chiesa e la vuole libera, povera e luminosa.

Nella Desiderio desideravi ha scritto parole che sanno di Vangelo e di fiducia: “Non dobbiamo perdere la fiducia nella liturgia: essa è la principale sorgente del sensus fidei del popolo santo di Dio” (DD, 37). Come dire: è lì, nella sorgente battesimale e sull’altare del pane spezzato, che il popolo di Dio si riconosce e si ricompone. È lì che la Chiesa nasce ogni volta che un “io” si lascia aprire al “noi”, ogni volta che la Parola accolta e il Corpo ricevuto generano comunione.

Grembo e specchio

Per Francesco, la liturgia non è un contenitore vuoto da riempire con iniziative pastorali, né un’arte da conservare in teche sacre: è l’evento in cui si intrecciano carne e mistero, dove le ferite dell’uomo e le piaghe del Risorto si toccano e si illuminano a vicenda. È un luogo fragile, fatto di parole, gesti, silenzi in cui Dio si consegna all’uomo, non dall’alto ma da dentro, e l’uomo si lascia trasfigurare, se si affida.

In questa visione, la liturgia è grembo e specchio della Chiesa: non strumento, ma origine. Non teatro, ma rivelazione. Non orpello, ma casa. Tutto questo gli è costato. Critiche, anche aspre. Accuse taglienti, parole pesanti, disprezzi mascherati da zelo per la verità. Gli è stato detto che svuotava la liturgia, gli hanno rimproverato di tradire la tradizione.

In un tempo disorientato, ha avuto il coraggio mite di ricordarci che la liturgia non è un museo di glorie impolverate ma la soglia viva di un incontro che salva. Celebrarla non è ripetere formule antiche con voce commossa ma spalancare ogni giorno il cuore e le mani nude al Vangelo che viene. E forse è proprio qui, in questa liturgia incarnata e povera, il suo lascito più originale, più evangelico, più urticante. Ci ha ricordato che si può celebrare male anche con paramenti perfetti, se manca l’amore. E che si può celebrare con arte vera anche nella nudità di un gesto, se dentro quel gesto brucia lo Spirito della liturgia.

Liturgia, la sua ultima parola

Così ci lascia Papa Francesco, con un magistero liturgico abbondante come un pane spezzato e distribuito senza misura, con mani larghe e cuore grato. Non una dottrina da archiviare, ma un sapore da custodire nel cuore. E così, nel giorno di Pasqua, ci ha salutati con una benedizione. Non un testamento fatto di parole solenni. Ma un gesto. Il più semplice e il più bello. Forse il gesto liturgico più umile e più universale: un segno di croce tracciato per benedire, per affidare, per amare.

Ha scelto – forse senza volerlo, forse proprio per questo – la liturgia come ultima parola. Anzi, come ultima forma del silenzio. Perché la liturgia non ha bisogno di spiegazioni: parla con i gesti, con i simboli, con le azioni. Forse, dopo di lui, il prossimo Papa ci sorprenderà con un magistero liturgico che si fa carne nel modo stesso di presiedere: non solo un magistero che insegna ma un magistero che celebra, che racconta attraverso la celebrazione.

Una forma di ars celebrandi che lasci parlare in profondità il canto, la prossemica, i colori, in un’armonia che si distacca da ogni sterile formalismo ma che sa utilizzare pienamente la forma rituale come lo spartito per mostrare la bellezza dell’incontro col Risorto.

Così, nel ritus et preces del nuovo pontefice, vedremo quel “desiderio desideravi” che Francesco ha descritto con cuore e profondità, affidandoci qualcosa di più profondo, qualcosa che va oltre le parole: una esperienza, una direzione, un respiro che orienta, ci invita a camminare sulla via della crescita.

Che le nostre coscienze possano sempre sentire che la liturgia è il luogo dove ogni passo si fa desiderio, dove ogni gesto rivela la pienezza di ciò che ancora siamo chiamati a vivere. Ogni passo nella liturgia è un passo nel cuore di Dio, e ciascuno di noi, con la propria voce, la propria fragilità, diventa parte di un canto che si intreccia nella sinfonia viva della Chiesa, sempre in divenire. La liturgia è come un bacio silenzioso che Dio posa sulle labbra del suo popolo. Non ha bisogno di fare rumore, basta che abbia il sapore dell’eterno.

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Di Giuseppe Costa

Laico dell'Arcidiocesi di Palermo, ha conseguito gli studi teologici presso la Pontificia Facoltà teologica di Sicilia «San Giovanni evangelista», la licenza in Liturgia pastorale presso l'Istituto di liturgia pastorale «Santa Giustina» di Padova. È componente del ufficio liturgico dell’Arcidiocesi di Palermo e docente invitato di Liturgia presso la scuola di teologia di Base «San Luca evangelista» di Palermo. Per la Tau editrice ha pubblicato: Nella tentazione: indurre o abbandonare? Riflessioni sulla nuova traduzione italiana del Padre Nostro (Todi 2020). Una comunità dal Rito (Todi 2023). Si occupa ormai da tempo di formazione biblico-liturgica per i laici.