Quando la Chiesa si raccoglie attorno alla bara del Successore di Pietro, il silenzio della preghiera liturgica si veste di un colore insolito: il rosso. Non il nero del lutto disperato, non il bianco della festa piena, ne il viola della penitenza, ma il rosso vivo della vita donata. In quel momento, il colore che riveste la liturgia non è un semplice dettaglio estetico, ma una parola silenziosa che parla al cuore della fede: una parola di offerta, di amore, di speranza.
Perché la liturgia parla anche, e soprattutto, così. La risposta al perché proprio questo colore, affonda le sue radici nell’antropologia prima che nella teologia.
Il rosso è un colore che attraversa la storia dell’umanità come un filo ardente, vibrante di vita e di significati. È il colore primordiale, quello che evoca il fuoco e il sangue, l’origine stessa dell’esistenza. Secondo molti studi di neuroscienziati il rosso e le sue sfumature sono i colori che il feto, a suo modo, “vede” nella translucenza dentro il grembo materno. In molte lingue antiche, la parola “rosso” coincideva con “bello” o indicava il sangue, segno tangibile della vita che scorre. Dalle pitture rupestri delle grotte di Altamira e Lascaux, dove i nostri antenati dipingevano gli animali cacciati con polveri di ematite, ai ricchi pigmenti usati nelle tombe egizie, nei templi greci e nelle ceramiche cinesi, il rosso ha sempre avuto un posto d’onore, celebrando la forza, la sacralità, il coraggio.
Nell’antica Roma, il rosso – in particolare quello ottenuto dal prezioso cinabro – era simbolo di potere e di prestigio, tanto da ornare le vesti degli imperatori e degli aristocratici. Questa eredità è passata anche al Cristianesimo: il colore del sangue di Cristo ha legato indissolubilmente il rosso alla fede, alla testimonianza, al dono della vita offerta.
Ed è proprio questo legame profondo tra il rosso, il sangue e la vita che spiega perché, dal 1978, i funerali del Papa siano celebrati con paramenti di questo colore. Non perché il Papa venga commemorato come un martire – sebbene la sua vita sia comunque un’offerta –, ma per una tradizione liturgica che affonda le radici in un passato ancora più remoto.
Prima della riforma del Concilio Vaticano II, la liturgia papale prevedeva per il Pontefice l’uso pubblico di soli due colori: il bianco e il rosso. Quando il Papa partecipava a funerali, non potendo indossare il bianco, sceglieva dunque il rosso. Così, alla sua morte, anche lui veniva rivestito di paramenti rossi, in continuità con questa prassi. Chi invece presiedeva il rito funebre indossava il nero, colore tradizionale del lutto.
Dopo la riforma liturgica, qualcosa cambiò. Per ragioni non del tutto chiare, a partire dai funerali di Papa Paolo VI nel 1978, anche chi presiede la celebrazione utilizza il rosso. Una tradizione che si è consolidata nel tempo, mantenendo quel riverbero antico di solennità e di vita, più che di lutto.
Curiosamente, oggi a Roma si celebra con paramenti rossi anche il funerale dei Cardinali e dei Vescovi, pur non essendo questi riti presieduti dal Papa, a conferma di come la simbologia del rosso continui a evocare una memoria di regalità, di sacralità e di offerta esistenziale.
Alla fine, il rosso che avvolge il Papa nell’ultimo saluto terreno ci parla di una vita che non si spegne, ma si trasfigura. Allora con una parola carica di teologia possiamo dire che è il colore della Pasqua vissuta nel corpo e nel sangue, il colore di chi ha amato fino alla fine. Il rosso non annuncia una fine, ma un compimento: la vita data ritorna al Padre come una fiamma accesa, pronta a partecipare per sempre alla luce senza tramonto del Risorto. È il rosso della speranza che non delude, perché fondata in Colui che ha vinto la morte per sempre.
Immagine: Vatican Media
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