Commento alla lettura domenicale del Vangelo offerto dal presbitero don Salvatore Lazzara, dell’Arcidiocesi di Palermo.
Nella quinta Domenica di Pasqua, la liturgia presenta la pagina giovannea in cui Gesù, esorta i discepoli a “rimanere uniti a Lui come i tralci alla vite”. La parabola, esprime con grande efficacia che la vita cristiana è mistero di comunione con Gesù: “Chi rimane in me e io in lui, dice il Signore, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15, 5). Il segreto della fecondità spirituale è l’unione con Dio, unione che si realizza soprattutto nell’Eucaristia, anello nuziale che lega il Creatore alle creature.
La metafora del Dio contadino, un “vignaiolo profumato di sole e di terra”, che si prende cura non con lo scettro ma con la vanga, è l’immagine più eloquente della “fatica” di Dio nei confronti degli uomini. Siamo davanti ad una affermazione inedita: le creature (i tralci) sono parte del Creatore (la vite). Cosa è venuto a portare Gesù nel mondo? Forse una morale più nobile oppure altre leggi religiose? Troppo poco; è venuto a portare molto di più, a donare la sua vita; ricordando che per nascere nel regno di Dio, è necessario essere innestati alla vera Vite. Come può un tralcio vivere senza essere intimamente legato al ceppo? Come può nutrirsi se è staccato dalla vite che lo genera?
La metafora del duro lavoro attorno alla vite ha il suo senso ultimo nel “portare frutto”. Il filo d’oro che attraversa e cuce insieme tutto il brano è la parola ripetuta sei volte e che illumina tutte le altre parole di Gesù è “frutto”: “in questo è glorificato il Padre mio che portiate molto frutto”. Come può un tralcio vivere senza essere intimamente legato alla vite? E cosa accade quando il tralcio si stacca dalla vite? I discepoli di Gesù non possono vivere senza essere innestati a Cristo. Rimanere “in Lui”, è la condizione per portare nel mondo l’impronta del Vignaiulo. Chi non rimane in qualche modo legato alla Vite, non solo non porta frutto, ma produce frutti avvelenati, che allontano dalla Vigna feconda, coltivata e irrigata con il sangue che Cristo ha sparso sulla croce. Oggi, quale Vite l’umanità ricerca? La “vera Vite”, oppure una “vite” di comodo o di inetresse? I tralci non vogliono essere uniti a Gesù Cristo, ma alle loro ideologie mortifere che se apparentemente danno soluzioni, potere e gloria, alla fine portano alla rovina stessa dell’uomo. Quanti frutti acerbi e amari, produce la falsa vite!
La vita quotidiana, fatta di mille o di poche cose, di lavoro, di attese, di relazioni, di luci e di ombre fa sperimentare che quando ci allontaniamo dal Signore, inaridiamo e diventiamo inutili. Gesù si “abbassa” fino a terra, per comunicarci l’amore eterno di Dio, che non vuole la morte dei figli, ma la salvezza di ogni tralcio. Dunque, il contadino che diventa Vite, come, altrove, il pastore è divenuto “la porta” che chiude il recinto in cui si radunano le pecore per la notte, è l’itinerario scelto da Dio per “ricondurre tutte le genti”, nella strada della Vita.
L’immagine della Vite, non parla più soltanto dello stretto legame fra lavoro e prodotto della fatica e del sudore. Gesù stesso si identifica nella vite. Non esiste una vite senza tralci. Non esiste un tralcio senza vite. Entrare nel pensiero di Cristo, nella logica dell’Amore e dell’amare, nella logica del discernimento, del conoscere, del vedere con lo sguardo dello Spirito; restare intimamente uniti, lasciar scorrere la sua linfa in noi, aiuta a portare frutto. Frutto che non è solo il risultato di uno sforzo umano, ma la fioritura della vita nuova che Cristo ha donato con la Resurrezione.
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