La città martire di #Aleppo, quando è stata bombardata nelle diverse fasi della guerra (iniziata nel 2011) dal governo siriano, dai russi, dalla coalizione internazionale occidentale, dal lancio dei missili da parte dei terroristi, non ha trovato pietà se non in pochi osservatori. Anche lì sono morte centinaia di migliaia di persone; i danni alle strutture sociali, storiche ed artistiche sono stati incalcolabili, così come le ferite psicologiche inferte alla popolazione e in modo particolare ai bambini sembrano avere una considerazione di serie b. Il tutto viene giustificato come “il male minore” e quindi accettabile, perché è l’equo compenso delle parti coinvolte per far valere le proprie argomentazioni.

Nessuna guerra che usa le bombe per risolvere il conflitto è “giusta”. Non ci sono bombe verso cui fare il tifo ed altre da condannare. Non ci sono bombe che si possono accettare per “ragioni di stato”, perché l’esito di un bombardamento è sempre la morte. La propaganda di basso livello che a quel tempo ha speso nell’indifferenza poche dichiarazioni di condanna sui bombardamenti di Aleppo, oggi rievoca quei terribili momenti per sostenersi ed aumentare l’odio e la violenza, dimenticando che dal Medio Oriente ad altre parti “calde” del mondo esistono città e luoghi che hanno subito la stessa sorte, se non peggio.

Parliamo di Raqqa, Bagdad, Mosul, Sana’a e altre parti dello Yemen, dell’Artsakh (Nagorno Karabak) e Armenia; le città del nord est della Siria continuamente bombardate; di Cipro la grande ignorata, per passare all’Iraq, e tutti gli altri paesi del mondo dove si combattono guerre, che a seconda del peso messo dai potenti di turno – che stabiliscono ciò che è giusto e sbagliato -, ne decretano la gravità; e quindi di conseguenza alcuni conflitti diventano più importanti di altri. Quanti vivono la morte nella loro pelle, hanno la percezione di essere usati come agnelli condotti al macello, pesati sulla bilancia della convenienza geopolitica, dove la loro umanità conta zero.

La “guerra combattuta a pezzi”, di cui parla Papa Francesco, si va delineando in tutto il suo orrore di morte. Ecco perché oggi la Chiesa deve tornare a parlare il linguaggio del Vangelo e non della politica. L’unico antidoto alle guerre è il ritorno delle Chiese all’unità visibile desiderata da Gesù Cristo prima di consegnarsi alla morte. Il collante che permette di abbattere l’odio è la fede vissuta nel vincolo dell’Amore che si è consumato sulla Croce. Non è utopia, ma Parola di Dio, è promessa del Risorto ai discepoli.

Abbandonare le logiche di potere ed abbracciare la dialettica del servizio, svuotando il “vivere ecclesiale”, dalle infiltrazioni personalistiche e nazionalistiche, è il primo passo per essere credibili agli occhi del mondo.

Il Patriarca di Costantinopoli insieme al Vescovo di Roma Papa Francesco, possano, sostenuti dalla forza dello Spirito Santo invitare l’ecumene cristiano ad impegnarsi a costruire il Regno di Dio nella giustizia e nella pace. Non disperiamo, il Signore della vita benedice e sostiene i suoi figli e gli operatori di pace. Seguiamo la voce di Cristo, perché solo Lui ha parole di vita eterna!

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Di Alexander Vaskries

Giornalista, studioso della cultura mediorientale e dell'Oriente cristiano.

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