I media (così come anche diversi commenti da parte dei soliti esperti e tuttologi); nel raccontare la crisi Ucraina, fanno emergere anche se in modo velato una sorta di soddisfazione (il professor Jean-Marie Guéhenno parla addirittura di “excitement than horror”); piuttosto che orrore, apprensione e timore per lo scoppio di una eventuale guerra tra gli USA e la Russia in territorio ucraino. Questo è un segnale preoccupante per la società occidentale (ormai non più legata al Cristianesimo), e che a volte sembra desiderosa di vedere realizzati pronostici di morte e di distruzione, piuttosto che impegnarsi ad alimentare con fatica la fiaccola della speranza. Nel podcast vocale ancora visibile nella pagina ANSA, che riguarda la crisi ucraina, l’inviata, specifica: “A Kiev, la vita scorre normalmente, almeno in superficie. Le persone ancora vanno a lavoro, il traffico è quello di un sabato qualunque. Ma sotto la coltre di una apparente normalità ci si prepara al peggio. C’è chi si tiene pronta una valigia in casa con i documenti e le cose più importanti per essere in grado di fuggire in fretta se la situazione dovesse precipitare da un momento all’altro. Nelle scuole si fanno prove di evacuazione. Ma il sentimento generale è che l’allarme (per una imminente invasione russa, ndr), sia più mediatico che reale. L’allarme è più sentito in Occidente che nella stessa Ucraina”. Un’altra anomalia si è registrata nei giorni scorsi, quando il presidente Zelensky, ha lanciato un appello, chiedendo a quanti hanno le prove dell’attacco russo di fornirle al più presto. Nello stesso momento, il presidente Americano Biden, si incontrava in video conferenza con i leader europei per discutere sulla crisi, ma mancava l’attore principale, la parte coinvolta: il presidente dell’Ucraina.  Cosa significa?

Come per altri scenari che hanno segnato il recente passato, sembra quasi che si ripeta uno schema ben preciso: dall’Afganistan all’Iraq; dalla Siria e ora in Ucraina. In Afganistan il pretesto è stato la lotta al terrorismo all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle. Dopo venti anni di presenza militare, conosciamo bene come si è conclusa l’esportazione della democrazia: i media per tempo hanno iniziato a preparare quello che poi si è rivelato il ritiro occidentale più tragico dalla fine della guerra in Vietnam. L’Iraq, governato dal dittatore Saddam Hussein, è stato spinto nel calderone dei paesi canaglia a trazione terroristica, con l’accusa di produrre armi chimiche. Impossibile dimenticare il discorso nella sede dell’ONU, da parte del segretario di Stato USA Colin Powell, sulle armi batteriologiche possedute dall’Iraq. Powell mostrò ai rappresentanti degli altri paesi, con un gesto di grande impatto emotivo, una fiala posta sul suo tavolo che conteneva una polvere bianca (a suo dire era la prova della produzione di armi chimiche nelle raffinerie del regime iracheno). Era il pretesto poi rivelatosi falso, per invadere l’antica nazione, culla della civiltà. Sappiamo bene cosa ha portato la guerra in Iraq. Tanto si adoperò San Giovanni Paolo II per scongiurare tale catastrofe umanitaria, causata non dal desiderio di pace e democrazia, ma dagli interessi geopolitici. Anche per la Siria, sono avvenute le stesse dinamiche: nel dicembre del 2010, dopo che i rapporti con il governo siriano si erano deteriorati, a causa delle vicendevoli accuse concernenti la violazione dei diritti umani e la corruzione nel sistema politico giudicato non più rispondente ai tempi moderni e lontano dal concetto di democrazia; i media iniziarono una campagna martellante contro la Siria, che di lì a poco diventerà un campo di battaglia che ha lasciato in questi 11 anni, scie di violenza, morte e distruzione. La protesta internazionale, si concretizzò con il ritiro dell’ambasciatore statunitense e l’avviso agli americani residenti in Siria di lasciare al più presto il paese perché considerato non più sicuro. A cascata quasi tutte le altre cancellerie seguirono supinamente la politica americana circa la chiusura delle rappresentanze, dei rapporti commerciali e sociali. Senza dimenticare che proprio in terra siriana, i russi e gli americani con i loro rispettivi alleati hanno combattuto e combattono una guerra con schieramenti interposti formati da personale paramilitare e in alcuni casi con gruppi terroristici a cui sono state date le etichette di ribelli e di contestatori del regime, per così essere accettati dall’opinione pubblica. Lo scopo di questi conflitti, è quello di tenere viva la dottrina della detenzione della “leadership mondiale” da cui discendono le alleanze, la distribuzione delle risorse naturali (soprattutto gas e petrolio), e la sfera di influenza per facilitare gli interessi della parte dominante.

La guerra fredda – in seguito trasformata in guerra ibrida -, nata dalle macerie del secondo conflitto mondiale, ha sviluppato la creazione di organismi di collegamento internazionale per garantire la stabilità tra i due schieramenti: USA e Russia. In tale contesto la NATO, ha sviluppato una politica difensiva, più incline a ridurre la sfera di influenza russa sui vecchi territori dell’Unione Sovietica, e soprattutto tenta di arginare lo scambio delle risorse tra le potenze regionali e la Russia (vedi ad esempio la diatriba tra la Germania e l’amministrazione americana sulla gestione del gasdotto Nord Stream 2). Nell’era dello sviluppo tecnologico la sicurezza, il controllo della rete virtuale e del web e soprattutto dei social network con la mole infinita di informazioni personali che sono custoditi nei database; hanno assunto un significato importante in questo eterno scontro che in ultima analisi vede sempre coinvolti l’America e la Russia.

Facendo un ulteriore passo indietro, possiamo dedurre che in tutti i luoghi dove gli americani hanno interessi in nome della libertà dei popoli, sono territori in cui l’Unione Sovietica (prima) e la Russia oggi, ha delle attenzioni significative per la sua sopravvivenza. Dopo la Siria (che alcuni analisti oggi trattano come la “prova generale” prima dell’ultimo faccia a faccia tra le due superpotenze in Ucraina); lo scontro si è avvicinato alle porte della Russia, a 800 Chilometri dai suoi confini. L’espansione della NATO ha coinvolto in questi ultimi anni la Polonia, la Bulgaria, la Romania, e parte dei paesi baltici, nazioni cruciali su cui l’America e la NATO contano molto per tutelare i loro interessi in contrapposizione con la Russia. Di fatti, lo schieramento più ingente di militari americani in Europa si trova proprio in questi territori che a sua volta sono diventati la sponda naturale per raggiungere l’Ucraina.

Tale influenza, si è manifestata soprattutto nel nodo legato al possibile ingresso di Kiev nella Nato. La Russia non vuole assolutamente che ciò accada, perché si ritroverebbe senza Stati cuscinetto a protezione di Mosca. Come d’altronde è avvenuto a Cuba negli anni sessanta, quando a pochi chilometri dalle coste americane, i sovietici stavano installando dei missili che inevitabilmente rappresentavano una minaccia gravissima per gli USA. Da qui nasce l’equivoco su cui i media e la politica “giocano”, e che di conseguenza alimenta una retorica guerrafondaia a sfondo nazional-patriottico. Un altro esempio lampante di disinformazione risiede nei continui comunicati che il mainstream propina al grande pubblico: “L’Ucraina è circondata”. Cosa significa? La Russia attualmente rispettando il diritto internazionale entro i suoi confini ha schierato le forze armate, le quali appunto non circondano l’Ucraina, ma presidiano i loro confini. È lo stesso procedimento attuato dalla NATO nei paesi più prossimi all’Ucraina e quindi alla Russia. Seguendo sempre questa logica, cosa si deduce? Che la NATO presidia i confini o che circonda la Russia?  

L’interesse principale dei russi non è invadere Kiev, ma proteggere i territori con forte ascendente russo del Donbass e del Luhansk. Con la nuova divisione dei confini, pur essendo territori ucraini, la popolazione storicamente è attratta dalla Russia dalla lingua e cultura e che considera la sua “Madre Patria”. Il conflitto ha avuto origine il 6 aprile 2014, quando alcuni manifestanti armati, secondo le testimonianze, si impadronirono di alcuni palazzi governativi dell’Ucraina orientale. In seguito quelli che vennero chiamati i “separatisti”, chiesero un referendum riguardo allo status delle loro regioni all’interno dell’Ucraina. Il risultato non è stato accettato a causa di presunti brogli dalla gran parte del mondo occidentale con a capo gli USA, che hanno subito colto l’occasione per intavolare un contenzioso con la Russia. Nonostante le rimostranze internazionali, le regioni in questione si sono proclamate: Repubblica Popolare di Doneck e Repubblica Popolare di Lugansk. Riconosciute come tali dalla Federazione Russa. L’inasprimento dei rapporti tra Kiev e queste regioni che si sono proclamate Repubbliche popolari e di conseguenza con la Russia, hanno attirato l’attenzione della NATO e quindi dell’America, che ha spinto gli organismi internazionali ad inviare una missione OSCE che aveva (ed ha) il mandato di contribuire a ridurre le tensioni e a promuovere la pace in Ucraina. La maggior parte dei componenti della missione, sono americani e proprio in queste ore sono stati richiamati in patria, mettendo così in seria difficoltà lo svolgimento della missione stessa, che appunto non potrà più valutare ed osservare tutti i movimenti e le provocazioni da ambedue le parti. Accanto a questa azione di ritiro, è aumentato il traffico di armi. Dove si trovano i famosi conduttori ed esperti di geopolitica (laici e religiosi), che commentano positivamente gli appelli di Papa Francesco contro il traffico di armi? Sappiamo bene da che parte stanno: con la stessa caparbietà con cui approvano le richieste del Santo Padre, non hanno esitazioni ha impiantare servizi corredati da foto e filmati dell’invio delle armi in Ucraina. Sarebbe troppo lungo investigare sulla vendita e sul traffico legale e illegale delle armi, che purtroppo ha un peso molto importante nello sviluppo dell’economia mondiale. Un’economia non più basata sul benessere dell’uomo, ma un’economia come ripete spesso Papa Francesco che “uccide”.

La posizione della Chiesa Cattolica sulla crisi in Ucraina, porta inevitabilmente ha fare alcune osservazioni: innanzitutto è necessario iniziare a fare una distinzione tra Occidente moderno e Chiesa Latina. Nonostante gli innumerevoli tentativi compiuti da San Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco, di richiamare le radici cristiane e la cultura su cui nel corso dei secoli si è formato l’Occidente e l’Europa in particolare, la strada intrapresa dalla politica e da alcune lobby di potere, va per il verso opposto. L’occidente con le ideologie che ha sposato, percorre un cammino diverso, incompatibile con la sua origine, e i tentativi messi in atto per trovare un terreno comune, aldilà dei discorsi ufficiali è alquanto problematico. Per esempio sul tema delle migrazioni, tutti applaudono al Papa, ma poi sostanzialmente tutto rimane immutato e le difficoltà crescono a dismisura sulla pelle degli ultimi e dei senza voce. Nell’immaginario collettivo orientale, tale divisione non è percepita in tutta la sua complessità, dunque a volte l’occidente con le sue pretese, viene identificato con la Chiesa Cattolica. Questo sicuramente crea delle distanze che si riflettono anche nei rapporti con il mondo ortodosso, il quale almeno in Russia (dopo il crollo del Comunismo). sostiene per cultura il potere politico e viceversa. La posizione di Papa Francesco nel momento della scissione del Patriarcato ortodosso di Kiev da quello di Mosca, è stata molto chiara: “La Chiesa cattolica, le Chiese cattoliche non devono immischiarsi nelle cose interne della Chiesa ortodossa russa, neppure nelle cose politiche. Questo è il mio atteggiamento, e latteggiamento della Santa Sede oggi. E coloro che si immischiano non obbediscono alla Santa Sede”.

La chiave degli ultimi interventi del Pontefice sulla crisi ucraina, attraversa questo filo sottilissimo che cerca in tutti i modi di far comprendere che il potere politico non può usare come bandiera il Cristianesimo per raggiungere i propri obiettivi. Sia chiaro chi utilizza questi giochi come ha affermato il Nunzio in Ucraina, “non può dirsi cristiano”. Ognuno deve prendersi le responsabilità, senza cercare sponde o appoggi nelle fede; e la fede non può in nessun modo legittimare le posizioni dei vari schieramenti in campo. È un passo molto importante da comprendere: la Chiesa prega per la pace, invoca da Dio il dono della pace, non come una “potenza che conta” e che si schiera nel consesso dei grandi della terra, ma come testimone della Croce in cui Cristo ricapitola ogni cosa. L’impegno della Chiesa per la pace, è la risposta alla richiesta del Signore risorto ai suoi discepoli di ogni tempo e luogo. Ecco perché è urgente ricomporre nell’unità visibile l’ecumene cristiana formata dai due grandi polmoni della Chiesa Latina e della Chiesa Ortodossa. Non per mostrare potenza e invincibilità, ma per dare attraverso la fede il segno dell’unità tanto desiderata dal Signore che porta nel mistero della fede, alla pace e alla concordia tra i popoli e le nazioni.

Un Ecumene unito secondo il volere divino, diventerebbe il parafulmine su cui si scaricano le difficoltà del mondo e la grazia riversata su di essa, diventerebbe il fiume d’acqua viva a cui abbeverarsi e ristorarsi. Oggi purtroppo questa visione avviene in modo imperfetto, e da questa imperfezione che nascono le divisioni. L’unità delle Chiese, l’ecumene ricomposto dall’Oriente all’Occidente, dagli Urali alle Alpi, dal Tamigi al Tigri, dall’Eufrate al Volga, da Gerusalemme a Costantinopoli, da Erevan a Damasco, da Bagdad al Cairo, da Atene a Cipro, dalle città antiche a quelle moderne in cui vivono i cristiani della diaspora di occidente e oriente; è l’antidoto migliore alla narrativa dei nazionalismi che sono privi di spirito e di infinito. Così si eviterebbero le guerre e le incomprensioni, l’odio e la violenza. L’unità dice che nonostante siamo diversi, siamo figli di Dio e fratelli tra di noi. È un sogno? Può darsi, ma è la via del Vangelo!

Sono lontani i tempi, delle manifestazioni di piazza, dei giovani per la pace, dei cortei studenteschi con conseguenti occupazioni degli edifici scolastici, delle soste davanti alle ambasciate interessate, dei lumini accesi nei posti simbolo delle varie città, dei talk show televisivi e delle informative urgenti parlamentari che non davano tregua nemmeno la notte. Sono cambiati solo i tempi (e quindi l’uomo si è evoluto in peggio), oppure la pace invece di essere uno dei beni supremi dell’umanità, è solo una bandiera ideologica per cui vale la pena lottare solo se colpisce alcuni interessi strategici e geopolitici?

Foto: notizienazionali.it

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Di Alexander Vaskries

Giornalista, studioso della cultura mediorientale e dell'Oriente cristiano.

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