Riceviamo e pubblichiamo il contributo esterno di Giuseppe Canale

Era il 1750 quando con bolla a firma dell’Arcivescovo di Palermo Giuseppe Melendez (1690-1753), sotto il titolo dell’Immacolata Concezione di Maria Vergine, e per volere del marchese di Lungarini Ignazio Vincenzo Abate (1689-1761), veniva eretta la parrocchia a Casteldaccia. Un passo decisivo, questo, che si rendeva necessario considerata la crescita demografica che il piccolo feudo di Castellazzo, non ancora elevato a comune autonomo[1], stava vivendo.

Allo stato attuale delle ricerche non appare certa la data di inizio dei lavori di costruzione della nuova chiesa – anche se avviati molto probabilmente tra il 1745 e il 1746 – e conclusi nel 1747 come testimoniato dalla iscrizione postuma nello stemma della famiglia Abate di Lungarini posto sotto la grande finestra centrale.

Il 3 ottobre 1750, ottenuta licenza, viene ufficialmente nominato primo parroco il reverendo don Giovanni Abbate (1694-1781), fratello del marchese. A questa ultima data è bene fare riferimento per individuare l’inizio ufficiale della vita parrocchiale.

La dignità di curazia sacramentale, che aveva prima sede nella cappella dedicata alla Madonna del Rosario[2], venne di diritto trasferita alla neo-fondata parrocchia. Fino al XVI secolo e parte del XVII [secolo] non esisteva in tutto l’agro palermitano[3] alcuna fondazione parrocchiale e la cura spirituale nonché sacramentale faceva capo alla sola Cattedrale, da cui dipendevano tutte le contrade extra moenia della città. I sacramenti (battesimi, matrimoni ed esequie) venivano sì amministrati dai vari cappellani presentati direttamente dal nobile locale, ma la piena giurisdizione, e la loro nomina ufficiale, spettava esclusivamente al Vescovo il quale delegava in sua rappresentanza un legato per il controllo e la gestione di ciò che di fatto fu un’appendice della primissima chiesa cittadina, quella di Palermo.

In 275 anni di vissuto parrocchiale vennero nominati diciassette parroci, di cui solo sedici ne presero effettivamente possesso; nel 1914 vi fu infatti don Ignazio Modica che, considerata l’opposizione violenta della mafia locale, e per prudenza pastorale, rinuncia alla nomina di parroco continuando a servire la comunità da vicario economo.

È significativo sottolineare come a fondare l’immagine identitaria del paese non è dapprima un dato politico, vale a dire comunale-amministrativo, bensì religioso. È la vita ecclesiale, insieme alla pratica cultuale e devozionale, che struttura e dà ritmo al vivere comune nella terra di Casteldaccia. Da un piccolo aggregato di semplici fuochi, popolarmente conosciuto come “casuzze”, diviene una comunità allargata di quasi 12.000 abitanti dove, oltre alla protezione di Maria Immacolata, a cui rimane la titolarità, sente la propria appartenenza anche attraverso la devozione a san Giuseppe, patrono del Comune.

Oggi, a più di duecento anni, e nel suo fluire storico, la parrocchia di Casteldaccia è chiamata sì a fare memoria della sua trama ma, più specificamente, ad operare quella saldatura tra fede cristiana e condizioni della vita civile tanto auspicata dal Vaticano II. Rileggere, ripensare, riesaminare un evento, per quello che è stato, è un’operazione indispensabile sia a livello individuale, per prendere in mano la propria coscienza, sia a livello di comunità/ società, per indirizzare gli eventi verso un maggior bene comune, o quantomeno il minor male possibile.

Credo sia inevitabilmente urgente, nel presente complesso entro cui siamo immersi, che la nostra esperienza di fede si rivolga – stra-volgendo se è il caso – ancor più radicalmente alla dinamica missionaria segnata e anticipata dall’uomo nuovo a cui tutta la Storia appartiene. È un impegno, questo, che ne va della nostra stessa esistenza.

Giuseppe Canale


[1] Originariamente il centro abitato era parte integrante del territorio di Palermo; con regio decreto del 21 settembre 1826 di Francesco I fu aggregato al costituendo comune di Solanto e solo più tardi Ferdinando II, con regio dell’1 maggio 1854, lo dichiarò comune autonomo (cfr. Collezione delle leggi e dè decreti del Regno delle Due Sicilie, anno 1826, semestre II, Napoli 1826, pp. 198-201).

[2] In seguito alle disposizioni del codice di diritto canonico, quella della Madonna del Rosario era, come quasi la totalità delle cappelle presenti sul territorio palermitano, definita oratorio pubblico. Essa presentava due condizioni fondamentali per essere tale: l’essere segregate dalle stanze del casino ed l’avere la porta patente a tutti, ovvero, aperta sulla pubblica strada in modo da permettere l’accesso a quanti lo desideravano (cfr. F. Lo Piccolo, In rure sacra. Le chiese rurali dell’agro palermitano dall’indagine di Antonino Mongitore ai giorni nostri, Accademia Nazionale di Scienze Lettere e Arti già del Buon Gusto di Palermo, Palermo 1995, p. 48).

[3] Con agro palermitano si identificava anticamente quell’area posta al di fuori del circuito murario urbano e racchiusa tra la linea costiera che affaccia sul tirreno e l’arco di monti che quasi in linea continua ne cinge il sito da Settentrione a Occidente sino a Meridione (per ulteriori approfondimenti vedi M. Messina, I distretti delle parrocchie di Palermo al 1820, Palermo 2014, pp. 14-15).

Foto: Parrocchia Maria SS. Immacolata – Casteldaccia (Facebook)

Segui Porta di Servizio

Seguici sul nostro canale WhatsApp oppure qui t.me/portadiservizio sul gruppo Telegram.