Proporre e non imporsi; testimoniare il Vangelo senza avere la pretesa di giudicare nessuno ma evitando di nascondersi, anche a costo di apparire scomodi o fastidiosi; vivere da cristiani nel mondo di oggi sentendo la responsabilità di annunciare l’amore di Dio intervenendo in materie delicate come l’inizio e il fine vita, il matrimonio, la fedeltà coniugale, la sessualità, il lavoro, la guerra. Ma anche accompagnare ed educare i giovani con rispetto e delicatezza, partendo da una testimonianza coerente.

È questo il monito che arriva da Milano e per la precisione dell’arcivescovo Mario Delpini che ha scritto una lettera pastorale alla Chiesa ambrosiana, dal titolo “Viviamo di una vita ricevuta”, che descrive la proposta per l’anno che sta iniziando. Un testo agile, snello, godibile ma soprattutto semplice e chiaro che ha l’effetto di una scossa per i cattolici contemporanei e che quindi merita di essere letto anche al di fuori dei confini lombardi. “Richiamo tutti alla vigilanza, alla lucidità, alla fortezza per evitare di essere reticenti, intimoriti o arroganti in un contesto caratterizzato da opinioni diffuse che confondono il pensiero, le parole, le proposte in ambito educativo e pastorale”, scrive il successore di sant’Ambrogio. Una lettera che, pur con la delicatezza e la sensibilità che dovrebbe sempre caratterizzare la comunicazione ecclesiale, non rinuncia ad affermare valori e princìpi, a proporre modelli alternativi a quelli “di oggi” sulla sessualità, sulla fedeltà coniugale, sul posto di ciascuno nel mondo.

“Una parola da dire a chi la vuole ascoltare”

Delpini chiede anzitutto ai cristiani di non tirarsi indietro: “Nel contesto in cui viviamo, la proposta cristiana può essere considerata come una sorta di stranezza d’altri tempi, può essere disprezzata come ridicola, può essere intesa come la pretesa di giudicare, come una invadenza fastidiosa – si legge nella lettera -. Ma i cristiani non vogliono e non possono giudicare nessuno. Sperimentano però che, vivendo secondo lo Spirito di Dio e l’insegnamento della Chiesa, ricevono pienezza di vita, hanno buone ragioni per avere stima di sé e degli altri, affrontano anche le prove animati da invincibile speranza. Non ritengono di essere migliori di nessuno. Sentono però la responsabilità di essere originali e di avere una parola da dire a chi vuole ascoltare, un invito alla gioia”.

Gesù, antidoto all’individualismo

Insomma, i cattolici sono chiamati all’annuncio missionario: senza pregiudizi, arroganza o pretese ma non possono non vivere il messaggio cristiano nella sua pienezza che è anzitutto un’opposizione a quell’individualismo su cui si basa la società moderna. Delpini sa bene che un annuncio autentico crea scandalo e lo fa citando il discorso di Gesù a Cafarnao che spinge molti a non seguire più il Cristo: “Gesù invita a entrare in comunione con lui, pane di vita, per contrastare la persuasione di essere vivi per sé stessi, di avere in sé stessi la vita. L’illusione dell’individualismo è di essere padroni e arbitri insindacabili della propria vita: ci si trova di fronte alle infinite possibilità offerte dalla situazione e si può scegliere la via da percorrere per giungere al compimento dei propri desideri. Si può anche non scegliere: si vive lo stesso. La vita è mia e ne faccio quello che voglio io. La persuasione diffusa nel nostro tempo ritiene ovvia e indiscutibile questa visione delle cose. In questa visione è ovvia e indiscutibile la destinazione a morire. Le domande sul principio e sulla fine, sul perché e sul senso, risultano moleste, imbarazzanti. Le domande ammesse sono piuttosto su come vivere godendo quel tanto di tempo in cui si vive”.

Una scelta di campo

Ai credenti, oggi come allora, spetta decidere da che parte stare: tra coloro che, scandalizzati, vanno via o tra chi invece resta discepolo?  “Gesù scandalizza le folle che lo cercano per farlo re con un discorso duro, sconcertante, inaccettabile – scrive l’arcivescovo meneghino -. Molti dei suoi discepoli non vanno più con lui. Gesù pronuncia nelle nostre comunità quello stesso discorso. Saremo tra coloro che ritengono di non poter fare a meno di Gesù, convinti che solo Gesù è la vita che può dare vita? Gesù offre la visione più realistica: vivete di una vita ricevuta, siete vivi perché chiamati alla vita dalla promessa della comunione con il Padre tramite la partecipazione alla vita di Gesù. Seguire Gesù, dimorare in Gesù, conformarci a Gesù è la condizione per vivere. Senza di lui non possiamo fare niente”.

La fede, scrive ancora Delpini, “non si riduce a una convinzione personale, né a una dottrina da imparare, né ad un sentimento. Credere in Gesù è, piuttosto, entrare nel mistero di Dio che ha mandato il suo Figlio Unigenito nella carne, nella storia, nelle relazioni di cui vivono gli uomini e le donne”. E per vivere in Cristo non si può prescindere dai sacramenti, dal Battesimo che ci unisce a Gesù morto e risorto: “Ci sono difficoltà diffuse ad apprezzare la pratica sacramentale – continua il presule -. La celebrazione dei sacramenti dal Battesimo fino alla Eucaristia introduce nella relazione con Gesù e da lui riceve la vita, la rivelazione del senso del vivere, la promessa di vita eterna. Viviamo di una vita ricevuta. La vita che riceviamo dai genitori si rivela nella sua origine come dono di Dio che ci chiama a partecipare della sua vita, figli nel Figlio Gesù”.

La Chiesa e l’educazione all’amore

La lettera passa poi ad alcuni esempi concreti e parte del presupposto che “essere vivi è dono. Essere uomo, essere donna è dono. Il corpo, in tutti i suoi aspetti, è dimensione irrinunciabile della persona: non è una prigione che mortifica la persona, ma la condizione per stabilire relazioni d’amore nella forma della reciprocità”. Un riferimento chiaro alla pretesa autodeterminazione del genere e della sessualità che quasi prescinde dal dato naturale.

Questo però non significa che la Chiesa non abbia precise responsabilità, anzi tutto il contrario: “La comunità cristiana deve assumere la responsabilità di educare all’amore in tutte le dimensioni affettive, sentimentali, sessuali. La proposta educativa cristiana è chiamata ad offrire l’esemplarità di persone adulte, uomini e donne che sanno amare e accompagnare i ragazzi e le ragazze nell’imparare ad amare”.

Una comunità cristiana che quindi non può limitarsi a dire ai giovani d’oggi cosa si può o non si può fare, ma che sappia dialogare, accompagnare e offrire una testimonianza credibile di una libertà umana “che non è assoluta e indeterminata”, che non può sentire “ogni determinazione come un limite che impedisce di ‘fare quello che si vuole’, di ‘essere quello che si vuole’. Piuttosto la libertà è incarnata in una storia, in un corpo, in una rete di relazioni da accogliere e leggere in profondità per essere liberi di fare della vita un dono d’amore”. La crescita dei giovani è una precisa responsabilità della Chiesa che deve aiutarli a resistere a quella che Delpini definisce una “colonizzazione culturale che impone la banalità dei luoghi comuni, la riduzione della relazione ai rapporti sessuali, la rassegnazione all’incontrollabilità dei sentimenti, delle passioni, delle pulsioni. La relazione tra uomo e donna, le forme molteplici dell’amicizia, l’esercizio di una libertà disciplinata che sa custodire la castità, la considerazione realistica della bellezza della pluralità delle vocazioni al matrimonio, alla verginità consacrata, al celibato per il Regno non sono principi di una dottrina, ma percorsi promettenti che convocano molti adulti, in una comunione che potremmo chiamare sinodale”.

La riscoperta di un’autentica sessualità

Delpini chiama a raccolta i laici, i genitori, gli educatori, gli insegnanti, gli ambiti accademici perché “di fronte allo splendore della chiamata di Dio è oggi necessario un di più di pensiero, studio, dialogo”, “perché la sapienza cristiana non sia ridotta all’immagine di un volume impolverato in una biblioteca, ma piuttosto sia da tutti riconoscibile come una buona pratica per essere lieti nel vivere la propria vocazione ad amare”. L’arcivescovo chiede di accompagnare i giovani “nell’incredibile e stupefacente scoperta di sé stessi”, suscitando “in loro il desiderio di capire e vivere sempre meglio ciò che essi sono, riconoscendo, al contempo, l’importanza e il valore della relazione con l’altro”, sapendo cogliere “il pieno significato e valore della sessualità in quanto ricchezza integrante di ogni individuo, in modo che essi possano poi comprendere, con maggior consapevolezza e responsabilità, nell’esercizio reale della loro libertà, quale tipo di relazione corrisponde al desiderio più profondo insito nella persona, in quanto essere umano coniugato nella propria mascolinità e femminilità”.

Il dono di un amore fedele

L’arcivescovo chiede con forza di rieducare alla fedeltà come “compimento dell’amore”, seppur immersi in una società che ha fatto della rottura dei matrimoni un evento quasi banale: “Il trascorrere del tempo non spegne l’amore se la sua origine è nella relazione con Gesù, nell’amare come lui ha amato. La reciprocità degli affetti non è l’esito di un contratto per la reciproca soddisfazione, ma la rivelazione dell’immagine di Dio che si manifesta nell’uomo e nella donna. La vocazione ad amare si compie nella decisione che si impegna per tutta la vita e ritiene la fedeltà non un peso da portare, un vincolo mortificante, ma la grazia di sperimentare nel succedersi dei giorni la rivelazione inesauribile del bene che ciascuno custodisce. Nei giorni lieti e nei giorni tribolati, nelle inevitabili prove che l’amore attraversa, nell’esperienza triste del peccato, l’amore fedele riceve la grazia di perdonare e di essere perdonato, di sperimentare il sacrificio e di rallegrarsi della pace, di chiedere e ricevere aiuto”.

Foto: Chiesa di Milano

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Di Roberto Immesi

Giornalista, collabora con Live Sicilia, è Revisore dei Conti dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia e Membro dell’Unione Cattolica Stampa Italiana (UCSI), sezione di Palermo.

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