Introduzione

La vicinanza tra Shavuot e Pentecoste non riguarda solo le date sul calendario: come avviene anche in altri casi, il Cristianesimo “rilegge” la festa ebraica attribuendole significati differenti, che riprendono immagini e contenuti ebraici, ma di fatto li reinterpretano alla luce del Vangelo e del messaggio della Resurrezione di Cristo dai morti. Anche quest’anno come già era accaduto a fine marzo, il calendario ebraico e quello cristiano quasi coincidono. Negli stessi giorni in cui si celebra Shavuot, infatti, i cristiani celebrano Pentecoste: questo non avviene per caso, perché le due feste cadono rispettivamente cinquanta giorni dopo Pesach e cinquanta giorni dopo Pasqua.

Il passaggio del popolo ebraico dalla schiavitù alla liberazione attraverso il mar Rosso è prefigurazione del nuovo popolo di Dio liberato dalle catene del peccato e salvato dalla Parola di Gesù Cristo.

Se a Pesach il popolo di Israele esce dall’Egitto, attraversa il Mare  Rosso e cessa di essere un gruppo di schiavi; è solo a Shavuot, con il dono della Torah ai piedi del Sinai, che diventa davvero un popolo. Ecco perché non possiamo qui tralasciare il grande inno innalzato a Dio dagli israeliti durante il passaggio nel Mar Rosso (Es 15, 1-6ss): “Voglio cantare in onore del Signore: perché ha mirabilmente trionfato, ha gettato in mare cavallo e cavaliere. Mia forza e mio canto è il Signore, egli mi ha salvato. E’ il mio Dio e lo voglio lodare, è il Dio di mio padre e lo voglio esaltare! l Signore è prode in guerra, si chiama Signore. I carri del faraone e il suo esercito ha gettato nel mare e i suoi combattenti scelti furono sommersi nel Mare Rosso. Gli abissi li ricoprirono, sprofondarono come pietra. La tua destra, Signore, terribile per la potenza, la tua destra, Signore, annienta il nemico!”. 

Questo inno di vittoria, ci riporta a un momento-chiave della storia della salvezza: all’evento dell’Esodo, quando Israele fu salvato da Dio in una situazione umanamente disperata. I fatti sono noti: dopo la lunga schiavitù in Egitto, ormai in cammino verso la terra promessa, gli Ebrei erano stati raggiunti dall’esercito del faraone, e nulla li avrebbe sottratti all’annientamento, se il Signore non fosse intervenuto con la sua mano potente. L’inno indugia a descrivere la tracotanza dei disegni del nemico armato: “inseguirò, raggiungerò, spartirò il bottino…” (Es 15,9). Ma cosa può anche il più grande esercito, di fronte all’onnipotenza divina? Dio comanda al mare di aprire un varco per il popolo aggredito e di richiudersi al passaggio degli aggressori: “Soffiasti con il tuo alito: li coprì il mare, sprofondarono come piombo in acque profonde” (Es 15,10). Sono immagini forti, che vogliono dare la misura della grandezza di Dio, mentre esprimono lo stupore di un popolo che quasi non crede ai suoi occhi, e si scioglie a una sola voce in un canto commosso: “Mia forza e mio canto è il Signore, egli mi ha salvato. È il mio Dio e lo voglio lodare, è il Dio di mio padre e lo voglio esaltare!” (Es 15,2). I rabbini commentano questo versetto dicendo: “Dio era non canto di gioia e di vittoria degli israeliti, ma Dio era anche nel pianto e nella disperazione dell’esercito del faraone”.

Il Cantico non parla soltanto della liberazione ottenuta; ne indica anche lo scopo positivo, il quale non è altro che l’ingresso nella dimora di Dio per vivere nella comunione con Lui: “Guidasti con il tuo favore questo popolo che hai riscattato, lo conducesti con forza alla tua santa dimora” (Es 15,13). Così compreso, questo evento non solo fu alla base dell’alleanza tra Dio e il suo popolo, ma è divenuto il “simbolo” di tutta la storia della salvezza. In modo speciale l’uscita dal mar Rosso, prefigura la grande liberazione che Cristo realizzerà con la sua morte e risurrezione. Per questo il “canto del mare” risuona a titolo speciale nella liturgia della Veglia pasquale, per illustrare con l’intensità delle sue immagini ciò che si è compiuto nel Signore Risorto. In lui siamo stati salvati non da un oppressore umano, ma da quella schiavitù di Satana e del peccato, che fin dalle origini pesa sul destino dell’umanità. Con Cristo, l’umanità si rimette in cammino, sul sentiero che riconduce alla casa del Padre. Questa liberazione, già realizzata nel mistero e presente nel Battesimo come un seme di vita destinato a crescere, raggiungerà la sua pienezza alla fine dei tempi, quando Cristo tornerà glorioso e “consegnerà il Regno a Dio Padre” (1Cor 15,24). Proprio a questo orizzonte finale, escatologico, la Liturgia delle Ore ci invita a guardare, introducendo il nostro Cantico con una citazione dell’Apocalisse: “Coloro che avevano vinto la bestia… cantavano il cantico di Mosé, servo di Dio” (Ap 15, 2.3).

Alla fine dei tempi, si realizzerà pienamente per tutti i salvati ciò che l’evento dell’Esodo prefigurava e la Pasqua di Cristo ha compiuto in modo definitivo, ma aperto al futuro. La nostra salvezza infatti è reale e profonda, ma sta tra il “già” e il “non ancora” della condizione terrena, come ci ricorda l’apostolo Paolo: “Nella speranza noi siamo stati salvati” (Rm 8,24). A questa prospettiva storico-salvifica erano particolarmente sensibili i Padri della Chiesa, che amavano leggere i fatti salienti dell’Antico Testamento – dal diluvio del tempo di Noè alla chiamata di Abramo, dalla liberazione dell’Esodo al ritorno degli Ebrei dopo l’esilio babilonese – come “prefigurazioni” di eventi futuri, riconoscendo a quei fatti un valore “archetipico”: in essi erano preannunciate le caratteristiche fondamentali che si sarebbero ripetute, in qualche modo, lungo tutto il corso della storia umana.

Del resto già i profeti avevano riletto gli eventi della storia della salvezza, mostrandone il senso sempre attuale e additandone la realizzazione piena nel futuro. È così che, meditando sul mistero dell’alleanza stipulato da Dio con Israele, essi giungono a parlare di una “nuova alleanza” (Ger 31,31; cfr Ez 36,26-27), nella quale la legge di Dio sarebbe stata scritta nel cuore stesso dell’uomo. Non è difficile vedere in questa profezia la nuova alleanza stipulata nel sangue di Cristo e realizzata attraverso il dono dello Spirito. Recitando questo inno di vittoria dell’antico Esodo alla luce dell’Esodo pasquale, i fedeli possono vivere la gioia di sentirsi Chiesa pellegrinante nel tempo, verso la Gerusalemme celeste.

Mosè sul monte Sinai riceve da Dio le tavole della Legge

Nel deserto, Mosè “impara” a pregare per il suo popolo che combatte per la libertà. Durate una preghiera estenuante, a favore di tutti, comprende che le sue mani, protese verso il cielo, si stancano. Hanno bisogno di essere sostenute da altri (Esodo 17,11-12). Apprende che si può parlare con Dio “faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico” (Esodo 33,11).  I Maestri del Talmùd e del Midrash discussero in passato sul momento in cui la Torà (התורה) venne scritta e consegnata al popolo ebraico. Alcuni tra loro, ritennero che la Legge, fosse stata scritta gradualmente e che i brani che la compongono siano stati cuciti assieme solo prima dell’entrata degli ebrei nella terra di Israele. Altri pensarono che Mosè avesse scritto il Pentateuco soltanto poco tempo prima di morire, dopo quarant’anni di permanenza degli ebrei nel deserto. Difficile decidere quale delle due opinioni sia la più autorevole. E’ importante però sottolineare che i commentatori antichi si trovano concordi sul fatto che la Torà venne consegnata agli ebrei solo molto tempo dopo la loro uscita dall’Egitto e che molti di essi, morti durante il tragitto verso la terra di Israele, non ebbero neppure il tempo di vederla.  È come se Dio stesso avesse voluto insegnare al popolo di Israele a vivere per almeno quarant’anni senza un libro, o perlomeno senza un libro completo, forse per abituarlo ad ascoltare soprattutto la voce di Mosè, del Maestro per eccellenza.  Il primo passo della Sacra Scrittura che gli ebrei ricevettero per iscritto è quello composto dai “Dieci detti”, più comunemente conosciuti come i “Dieci Comandamenti”. Cercherò allora di commentare l’episodio della Torà che porta Israele a ricevere questo brano della Torà.

Iniziamo dal momento in cui il popolo ebraico si trova sotto il monte Sinai e ascolta – in parte dalla voce di Dio e in parte dalla voce di Mosè – i Dieci comandamenti. Si faccia qui attenzione: prima di vedere qualcosa di scritto gli ebrei devono saper ascoltare (il problema dell’ascolto è un tema ricorrente nella tradizione ebraica, così come anche per i cristiani). Solo dopo di ciò Mosè salì sul monte Sinai per ricevere queste “parole scritte” direttamente dalla mano di Dio. A questo punto leggiamo un primo versetto: “Le tavole del patto (Tavole della legge) erano opera di Dio, e la scrittura era la scrittura di Dio scolpita su di esse” (Esodo 32,16).

Che cosa spinge Dio a scrivere? Perché non affidare l’intera opera della Torà alla mano del fedele servitore Mosè? Dio non è forse eterno e al di sopra di ogni concezione di tempo e di spazio? La scrittura, con le sue forme ben definite, non è forse una limitazione all’interno di forme spaziali di concetti esprimibili nella loro completezza solamente attraverso la trasmissione orale?

Il rabbino S. R. Hirsh, ritiene che la scrittura divina scolpita sulle tavole della legge, o come dice la stessa Torà Charùt ‘al Haluchòt (stampata sulle tavole), avesse di per se degli elementi miracolosi. Le tavole erano traforate e alcune lettere si libravano nell’aria, come se non fossero legate al mondo della materia. Lo scritto poi poteva essere letto da qualsiasi parte lo si guardasse, come se degli specchi inseriti dalla sapiente mano di un artigiano potessero permettere a ogni lettore di rimanere fermo in un posto diverso, eppure di leggere perfettamente le parole scolpite nella roccia. Così con un gioco di parole il Midrash modifica i termini del versetto Charùt‘al Haluchòt con Cherùt al Haluchòt, ossia “Libertà sulle tavole”, come a sottolineare che la scrittura divina, al contrario di quella umana, è totalmente libera da ogni limite. Il senso di questo commento ci sembra chiaro. Ogni scritto ha un legame con la superficie che lo supporta. Questa superficie per i Maestri simboleggia ogni spazio e ogni tempo, per cui il concetto che la scrittura esprime può cambiare in rapporto al posto e al tempo in cui esso viene presentato e può, così, essere anche negato o sostituito in parte. Ma la scrittura divina è posata su infinite superfici che intersecandosi definiscono l’intero universo e lo scioglimento di ogni limite spazio-temporale e, in quanto tale, essa è al riparo da ogni errore ed eternamente moderna. Se l’uomo avesse visto quelle tavole, almeno per un solo istante, forse l’intera umanità sarebbe cambiata e molti dei segreti del mondo sarebbero stati svelati.

Torniamo al monte Sinai. Il Testo narra che mentre Mosè si trovava ancora sul monte, il popolo ebraico si costruì come idolo un vitello d’oro, non tanto (o non solo) per sostituire Dio con una statua, ma per sostituire soprattutto Mosè che mancava ormai da troppo tempo. Questo è il più grave atto di idolatria che si possa commettere: farsi un uomo come idolo.

Dio, dunque, consegnò le Luchòt Haberìt, le tavole della legge, a Mosè affinché le portasse al popolo ebraico, dopo averlo reso edotto del peccato commesso da una parte del popolo di Israele. Un midràsh di difficile interpretazione immagina che in realtà Mosè non ricevette queste tavole ma che dovette strapparle con forza dalle mani di Dio che ritenendo l’uomo ormai indegno di ricevere i Suoi comandamenti aveva espresso il desiderio e la necessità di distruggerle. Secondo tale interpretazione, dopo aver preso con violenza le tavole dalle mani del Creatore, Mosè affermò con orgoglio: “Adesso ciò che Tu hai scritto è in mano mia”. La lotta qui descritta altro non è che il desiderio immenso che spinge Mosè a chiedere con forza a Dio il permesso -poi accordato- di portare ai figli di Israele un primo passo della Torà. Ma continuiamo il racconto così come viene presentato dalla Scrittura:  “Ora, quando Mosè si avvicinò all’accampamento e vide il vitello e le danze, si accese il suo sdegno, gettò dalle sue mani le tavole, mandandole in pezzi ai piedi del monte” (Esodo 32, 19).

Mosè, dunque, dopo esser disceso dal Sinai trova effettivamente che gli ebrei stavano adorando un vitello d’oro e decide di spezzare ai loro occhi le tavole della legge. I commentatori a questo punto si chiedono che cosa abbia indotto Mosè a distruggere il testo sacro che Dio gli aveva concesso, e soprattutto, perché combattere per impossessarsi di un “libro” sapendo a priori di doverlo poi rompere per vietarne la lettura al popolo ebraico che stava commettendo un grave peccato. Le risposte dei Maestri a riguardo sono molte ma in questo contesto ne riporterò solo una piccola parte. Alcuni vedono nella “Tavole della legge” una sorta di contratto matrimoniale che, sancisce il legame tra il popolo ebraico e di Dio. Spezzando questo “contratto” – che tra l’altro vieta ogni forma di idolatria – prima che Israele ne entri in possesso, Mosè avrebbe cercato di salvare la vita del popolo ebraico. Parafrasando un midràsh Mosè avrebbe detto a Dio:  “Ora Tu non puoi più considerare il popolo ebraico colpevole di tradimento poiché il matrimonio non è ancora avvenuto. Certo, i comandamenti Israele li aveva ascoltati ed accettati, ma a voce non si contraggono matrimoni. Ci vuole un contratto e questo non esiste più, io l’ho spezzato e gli ebrei non lo hanno potuto vedere. Del resto non potevo certo lasciare la traccia di questo scritto nelle Tue mani. Non ho potuto fare altro che strapparlo con forza e portartelo via. Ora, se devi punire qualcuno, bene, questo sono io e nessun altro”.

Il rabbino Meìr Israel di Dwinsk sostiene, invece, che Mosè abbia compiuto questo gesto anche per dimostrare al popolo ebraico che quando manca la giusta predisposizione da parte dell’uomo a capire ciò che Dio vuole trasmettere, ogni passo della Scrittura, anche anche se scritto dalla mano del Creatore, non ha ragione di essere letto e per tanto di esistere. Insomma, anche le tavole della Legge, per quanto scritte da Dio, possono essere spezzate quando non vi è un uomo capace di renderle effettivamente sacre attraverso l’azione e il pensiero. Nel momento in cui viene a mancare la capacità di ricreare, di trasmettere di soffrire per capire ciò che è scritto, viene a mancare anche il senso di ciò che Dio ha consegnato. Il popolo ebraico allora è come la Torà, un libro che va studiato, che spesso si capisce, a volte non si capisce e si critica ma che deve vivere per il proprio bene, per l’esistenza e il senso più intimo e profondo della Scrittura e per il bene di tutta l’umanità. Lo stesso vale anche per la Chiesa: se non è capace di “trasmettere” gli insegnamenti del Vangelo, diventa come una “tavola illegibile”, e quindi non più capace di comunicare l’annuncio della salvezza.

L’ultimo commento che vorrei qui riportare, e che ci lega alla festa di Shavuot è  in parte legato a quello precedente: ritiene che queste tavole dovevano per forza essere spaccate, per mostrare agli ebrei che quelle tavole erano troppo perfette per essere capite fino in fondo da chi ha commesso il peccato dell’idolatria. Un oggetto troppo perfetto, se donato ad una persona inadatta a possederlo può diventare inutile e un insegnamento trasmesso a persone poco inclini a riconoscerne l’importanza può diventare deleterio. Riguardo a ciò già il Maimonide scriveva: “Israele non credette in Mosè per i prodigi che egli fece, poiché chi crede nei prodigi avrà poi dei ripensamenti e credere che il prodigio sia stato in realtà un atto di magia o di stregoneria (Yesodé Hatorà, 13, 1).

La Festa  ebraica di Shavuot

Shavuot nasce come festa agricola della mietitura del grano, come Pesach è la festa agricola della mietitura dell’orzo; entrambe le feste fanno parte degli shalosh regalim (lett. “tre passi”), cioè delle feste in cui è prescritto il pellegrinaggio al Tempio. Ma il significato più importante di Shavuot è quello storico: in questa ricorrenza, che dura un giorno in Israele e due giorni in diaspora, si fa memoria del “matan Torah”, il dono della Torah al Sinai, e questo collega Shavuot a Pesach.

Ricevendo una sorta di “carta costituzionale”, che contiene indicazioni di carattere liturgico, giuridico, etico e politico, un gruppo di schiavi liberati diventa nazione. E non è un caso che il cuore di quella “tavola” che è la Torah, le Dieci Parole, inizi proprio richiamando l’uscita dall’Egitto: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa degli schiavi» (Es 20,2). Se Pesach segna l’inizio della storia ebraica, il suo punto zero, Shavuot ne rappresenta il culmine, l’apice, il momento di maggiore sacralità.

Dunque, Shavuot è una delle tre feste di pellegrinaggio, cioè una festa durante la quale ci si deve recare al Tempio di Gerusalemme (ai tempi in cui ancora esisteva) e portare un’offerta, secondo il dettato che si trova in Esodo 23, 16: “Conterete cinquanta giorni fino all’indomani della settima settimana ed allora presenterete al Signore un’offerta farinacea nuova (di frumento nuovo)”. A Shavuot ci si reca alla Sinagoga, dove vengono utilizzati degli addobbi particolarmente sontuosi e il profumo dei fiori che vengono portati per l’occasione rende particolarmente gradevole la atmosfera. Le piante e i fiori che si usano per addobbare le case e le sinagoghe probabilmente rimandano al luoghi lussureggiante nel deserto in cui fu ricevuta la Torà. In Italia a Shavuot molte bambine celebrano il loro bat Mizwa, cerimonia attraverso la quale diventano “adulte” e in grado di adempiere ai precetti che riguardano le donne.

Il pasto di Shavuoth è a base di latte. (Le regole alimentari ebraiche, in osservanza al divieto biblico “non mangerai il pretto nel latte di sua madre” vietano di mangiare nello stesso pasto carne di qualsiasi genere e di cibi derivati da latte). Le origini di questa usanza possono essere diverse, le più accreditate sono due: il sapore della Torà viene paragonato a quello del latte e del miele. La seconda ipotesi è che gli ebrei non avendo ancora ricevuto la Legge, non erano in grado di procedere alla macellazione rituale degli animali, per cui si astenevano dal mangiare la carne.

Dopo la cena della vigilia, molti usano studiare la Torà per tutta la notte. Il secondo giorno di Shavuot si legge il libro di Ruth, libro facente parte del canone biblico, nel quale viene narrata la storia di Ruth la moabita, della sua conversione all’ebraismo, conversione alla quale arrivò attraverso tappe spirituali paragonabili a quelle del popolo ebraico. Ruth è un’antenata del re David, e in quanto tale il Messia nascerà dalla sua progenie.

La Pentecoste cristiana

Qualcosa di simile accade anche nel cristianesimo: la Pasqua commemora la resurrezione di Gesù di Nazareth, mentre Pentecoste rappresenta la nascita della Chiesa. A Pasqua si fa memoria dell’evento fondativo del cristianesimo, ma tale evento è ancora solo germinale, tanto che i Vangeli narrano diversi episodi in cui anche i discepoli più vicini a Gesù non capiscono cosa stia accadendo. Cinquanta giorni dopo la resurrezione, che secondo i Vangeli accade durante la settimana di Pesach, i discepoli di Gesù sono riuniti a Gerusalemme per celebrare Shavuot e in quel momento accade qualcosa di particolare: «Mentre il giorno di Pentecoste [Shavuot] stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d’esprimersi» (At 2,1-4).

La tradizione cristiana celebra quindi a Pentecoste l’effusione dello Spirito Santo, che rappresenta la terza persona della Trinità. Non è un caso che i cristiani collochino la loro Pentecoste proprio durante Shavuot, perché l’effusione dello Spirito Santo è una forma di rivelazione, come il matan Torah, di cui ha preso anche le sembianze esterne: «venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo […]. Apparvero loro lingue come di fuoco». Il rombo di tuono, il vento gagliardo, le lingue di fuoco ricordano da vicino il Sinai: «Al terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni, lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di tromba […]. Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto» (Es 19,16.18).

Tecnicamente la Pentecoste cristiana è la “festa dello Spirito santo”, che elargisce i suoi doni, che sono sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà e timore di Dio e che ispira gli autori cristiani ed il magistero della chiesa; Pentecoste fonda la Chiesa, che è unificata proprio dallo Spirito santo. Legato alla fondazione della Chiesa, che è per natura una istituzione missionaria volta a fare conoscere la predicazione di Gesù di Nazareth, è il miracolo della glossolalia che accade a Pentecoste: «cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d’esprimersi». I segni della teofania (la manifestazione di Dio) di Pentecoste sono molto simili a quelli del Sinai, ma il miracolo delle lingue è una novità ed il suo valore è essenzialmente teologico: poter parlare diverse lingue consente di comunicare con persone di diversi popoli e di convertirle. In tal modo il messaggio cristiano supera i confini dell’ebraismo e si muove verso il mondo pagano.

La prima testimonianza della festa di Pentecoste è resa da Tertulliano (155-220), che ne parla come di una festa particolare in onore dello Spirito santo; alla fine del IV secolo Pentecoste era una festa solenne ed era invalso l’uso di battezzare, alla vigilia, i catecumeni che per qualche ragione non erano stati battezzati la notte di Pasqua. Per lungo tempo la festa di Pentecoste durò più giorni: inizialmente una settimana, poi via via i giorni festivi vennero ridotti a tre, quindi a due. Nel XX secolo gran parte della chiesa cattolica ridusse Pentecoste ad una sola giornata festiva, di domenica, ma questa modifica non fu adottata in tutti i paesi cattolici, né in quelli che aderiscono alla Riforma: ancora oggi il lunedì di Pentecoste si festeggia in Francia, Spagna, Austria, Germania, Svizzera, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, nonché in Alto Adige.

Foto: Mosè con le tavole della Legge – Rembrandt – 1659 – olio su tela – Gemäldegalerie, Berlino

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Di Don Salvatore Lazzara

Don Salvatore Lazzara (1972). Presbitero dell’Arcidiocesi di Palermo, ordinato Sacerdote dal cardinale Salvatore De Giorgi il 28 giugno 1999. Ha svolto per 24 anni il suo ministero presso l’Ordinariato Militare in Italia, dove ha avuto la gioia di incontrare e conoscere tanti giovani. Ha partecipato a diverse missioni internazionali dapprima in Bosnia ed in seguito in Libano, Siria e Iraq. Ha concluso il servizio presso l’Ordinariato Militare presso la NATO-SHAPE (Bruxelles). Appassionato di giornalismo, dapprima è stato redattore del sito “Papaboys”, e poi direttore del portale “Da Porta Sant’Anna”. Ha collaborato con il quotidiano “Roma” di Napoli, scrivendo e commentando diversi eventi di attualità, politica sociale ed ecclesiale. Inoltre, ha collaborato con la rivista di geopolitica e studi internazionali on-line “Spondasud”; con la rivista ecclesiale della Conferenza Episcopale Italiana “A sua immagine”, con il quotidiano di informazione on-line farodiroma, vatican.va e vatican insider. Nel panorama internazionale si occupa della questione siriana e del Medio Oriente. Ha rivolto la sua attenzione al tema della “cristianofobia” e ai cristiani perseguitati nel mondo, nella prospettiva del dialogo ecumenico ed interreligioso con particolare attenzione agli ebrei ed ai musulmani. Conosce l’Inglese, lo Spagnolo, l’Ebraico e l’Arabo.

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