«Recidendo sé da Dio, suo Creatore, l’uomo ha imitato il boscaiolo che si siede sul ramo che vuole tagliare. Questo accade, poiché lì egli si trova più comodo per poterlo segare nel suo punto d’innesto col tronco. Ma se chi taglia non si ferma in tempo, cade anch’egli insieme al ramo».

Con queste parole di Laurentin desidero avviare una breve riflessione con la quale si tenti di far emergere frammenti di Dio tra i solchi dell’umano. Al giorno d’oggi l’esistenza dell’uomo sembra essere particolarmente connotata da una inquietante crisi d’identità che si esprime soprattutto nello smarrimento in cui si dibatte l’età contemporanea. Ci si chiede chi sia l’uomo e, a tale domanda, sembra non essere possibile rispondere senza porsi la domanda sull’esistenza di Dio. Nel IV secolo a.C, la tradizione ci tramanda che il filosofo Diogene di Sinope si aggirasse per le strette vie della sua città tenendo una lanterna accesa alla ricerca dell’uomo. Questa fascinosa immagine fu poi utilizzata al tramonto del XIX secolo dal filosofo Nietzsche, il quale nel suo Così parlò Zarathustra dipinge la figura di un uomo folle che si vide aggirare per le strade della sua città con una lanterna accesa, non più alla ricerca dell’uomo ma alla ricerca di Dio di cui di lì a poco ne dichiarerà la morte. Sulle domande che queste figure traiettano, si regge il senso profondo dell’esistere umano e risulta quantomai indispensabile riaccendere la lanterna di Diogene per rimettersi alla ricerca dell’uomo poiché solo sui sentieri dell’uomo è possibile percorrere la strada che conduce all’Assoluto. Divino e umano, così come dimostrato nella Rivelazione, e in maniera particolare nell’Incarnazione, sono intimamente uniti e non si può rinunciare a Dio senza rinunciare all’uomo e viceversa.

È possibile che la volontà di fare a meno di Dio sorga dal desiderio di riscattare l’uomo da una visione penitenziale che per tanto tempo ha visto la carne come ostile al rapporto con Lui. Eppure Dio sceglie di farsi uomo, di assumere una carne e di essere a tal punto solidale all’uomo da condividerne ogni aspetto dell’umano «fuorché il peccato» (Eb 4,15). Ogni storia di santità, per l’appunto, è una riconciliazione dell’uomo con Dio attraverso la propria carne, nello sforzo illuminato dalla grazia di ricondurre sé stessi ad «immagine e somiglianza di Dio» (Gen 1,26), un’immagine rivelata pienamente in Cristo che è «vero Dio e vero uomo». Si pensi a figure come Francesco d’Assisi, il quale volendosi conformare pienamente al Crocifisso, al Dio crocifisso, viene insignito sul suo corpo delle stigmate della passione, segno visibile che vive in Dio perché uno con il Crocifisso. Il Padre lo rende alter Christus dandogli occhi tali da amare i fratelli con gli occhi del Figlio.

La santità di Francesco passa attraverso la comprensione della propria carne come lo strumento attraverso cui amare Dio nei fratelli, al punto da essere insignito nella carne dai segni eterni dell’amore con il quale Dio amò il mondo. La sua fu una storia di conversione nei confronti del proprio corpo, prima concepito secondo la sua cultura, come ostile all’anima e poi come lo strumento mediante cui Dio si è servito per raggiungere gli uomini del suo tempo. Molto probabilmente per questo Francesco, alla sera della sua esistenza terrena rivolse una richiesta di perdono a «fratello corpo» per le dure penitenze inflittegli in vita (FF 1412). Per Francesco, così come per tanti altri fratelli nella fede, il desiderio di santità è sorto dalla carne umiliata e sofferente del Crocifisso risorto.

A supporto di tale riflessione, sembra utile ricorrere ad una celebre opera pittorica di Caravaggio: l’estasi di San Francesco.

Era probabilmente il 1595 quando Michelangelo Merisi consegnò al cardinale Francesco Maria Del Monte, nel cui palazzo a Roma soggiornò, l’opera suddetta. Può darsi infatti, che l’intento del Caravaggio, fosse proprio quello di ingraziarsi il suo ospite celebrando il santo di cui portava il nome e, a parere di alcuni critici, rappresentandolo con le medesime caratteristiche somatiche del cardinale. L’estasi di San Francesco, si allinea perfettamente al gusto tridentino di quelle opere che, narrando la bellezza della fede avrebbero dovuto suscitare una forte risposta empatica in chi le avrebbe ammirate. La vicenda descritta rimanda, seppur in una visione inedita, al racconto dell’impressione delle Stigmate raccontato da San Bonaventura e già oggetto di numerose rappresentazioni, basti pensare al celebre affresco nella Basilica Superiore di Assisi eseguito qualche secolo prima da Giotto. Caravaggio immagina l’esperienza mistica del Santo nel momento immediatamente successivo all’impressione delle stigmate. Si vede in lontananza un frate, ancora ignaro dell’accaduto, e in primo piano il corpo del Santo che rapito in un intenso e quasi sensuale atteggiamento di riposo, si adagia dolcemente tra le braccia di un angelo che dolcemente lo accoglie.

La scena è ambientata in una radura al sorgere del sole e sembrerebbe quasi che sia il santo stesso la fonte luminosa che sorge dal basso, incendiata dalla grazia di Dio. Secoli prima fu Dante, nel XI canto del Paradiso a definire il poverello d’Assisi “sole”, tanto da invitare a non più chiamare Assisi con il suo nome ma con il più adeguato “Oriente”.

Nel tetro sfondo, a fare da cornice ad un cielo scuro e caliginoso, sono due alberi: uno rigoglioso che simboleggia la vita e l’altro spoglio a richiamare la morte. A fare da letto al santo invece, è una bellissima e definita vegetazione che ricorda la bellezza del Paradiso terrestre. Così, san Francesco, è immaginato come sospeso tra la vita e la morte, dove il monte della Verna, così come per Cristo il giardino in cui risiedeva il sepolcro, diviene luogo di risurrezione. È in questo momento, tanto solenne quanto drammaticamente passionale, che Francesco vive un anticipo della sua condizione futura e in cui, nell’incendio dello spirito ma anche nel pieno coinvolgimento della carne, egli si sente tutto in Dio e può così aver esaudita quella preghiera che egli stesso aveva dapprima rivolta al suo Salvatore: “O Signore mio Gesù Cristo, due grazie ti priego che tu mi faccia, innanzi che io muoia: la prima, che in vita mia io senta nell’anima e nel corpo mio, quanto è possibile, quel dolore che tu, dolce Gesù, sostenesti nella ora della tua acerbissima passione, la seconda si è ch’io senta nel cuore mio, quanto è possibile, quello eccessivo amore del quale tu, Figliuolo di Dio, eri acceso a sostenere volentieri tanta passione per noi peccatori” (F.F. 1919).

Francesco, a distanza di secoli forse torna ad insegnare che nel nostro tempo, accantonati i deliri di onnipotenza, solo il riconoscimento e l’accoglienza della propria fragilità consegnata nelle mani di Dio può riconsegnarci la verità che andiamo cercando per ritrovarci. Il compito della Chiesa pertanto diverrebbe non più quello del giudice della carne ma quello di una madre capace di insegnare a guardare con tenerezza le proprie fragilità per riconsegnarle al Signore affinché da Lui possano essere utilizzate come strumenti attraverso i quali manifestarsi all’uomo d’oggi. Dio non chiede all’uomo di rinunciare alla sua dimensione corporale – materiale, che peraltro connota la sua identità di uomo, ma lo chiama a viverla – come accadde per Francesco – alla stregua di Cristo il quale, “rivelando pienamente all’uomo se stesso” (Cf. GS 22) mostra nell’amore, la misura alta alla quale l’umanità è chiamata.

Chiedere di rinunciare alla propria corporeità, alla propria umanità, potrebbe provocare infatti, così come purtroppo già in gran parte è avvenuto, uno scollamento dell’uomo da Dio.

In foto: Caravaggio, San Francesco in estasi, (1595, olio su tela, 93×128 cm), Wadsworth Atheneum, Hartford. Tratte da Wga.hu

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Di Eduardo Guarnieri

(1998), studente di sacra teologia, si interessa dello studio che intercorre tra l’arte e la fede.

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