Don Gabriele Virga è un sacerdote diocesano che guida la comunità di San Gaetano a Brancaccio. Quella dove Puglisi ha vissuto gli ultimi tre anni della sua vita. Recentemente è andato via, dopo una malattia, don Maurizio Francoforte. Molto vicino a Biagio Conte, i cui funerali si sono svolti presso la chiesa della missione Speranza e Carita dove è sepolto il frate laico.
Ci vediamo nel tardo pomeriggio di martedì 11 marzo presso la parrocchia. Don Gabriele è puntualissimo. Mi avvicino a lui mentre sta aprendo la porta per entrare in chiesa. Nel frattempo si sta congedando da due suore con le quali è stato in giro a visitare le famiglie. Non è un luogo privo di significato la chiesa di San Gaetano per chi scrive. Sono nato nel quartiere, ho frequentato la parrocchia da piccolo e sino all’età adulta.
L’incontro
Don Gabriele l’ho conosciuto in ascensore a fine ottobre 2022. Ho capito che andavamo nella stessa casa dopo il penultimo piano. Stava portando l’estrema unzione a un mio zio che se ne stava andando. Mi colpirono le sue profonde parole e lo sguardo partecipe una volta seduto dopo aver impartito il sacramento. Al telefono mi aveva detto che non poteva prima di un certo orario perché sarebbe stato in giro appunto con le suore nelle case del quartiere.
Mi è parsa una buona notizia. Le suore furono chiamate da don Puglisi, prima ancora che il Centro Padre Nostro di fronte la parrocchia, quello pensato e voluto da don Pino, entrasse in funzione.
Prima di incontrare don Gabriele mi soffermo davanti al Centro. Nella targa c’è scritto: Centro Parrocchiale di Accoglienza Padre Nostro, fondato dal Beato Padre Pino Puglisi il 16 luglio 1991 ed inaugurato dal Cardinale Salvatore Pappalardo il 29 gennaio 1993.
In questa palazzina c’è l’essenza di don Pino. Un centro parrocchiale, cioè in piena sintonia con la parrocchia che si trova dall’altra parte della strada, meno di quaranta metri, di accoglienza, completamente slegato da prebende e finanziamenti. Entrati in chiesa, sento il coro che si esercita.
Don Pino e don Maurizio
Don Gabriele deve affrontare con una volontaria l’accesso problematico in una casa. A volte occorre pure capire e incassare i no di chi non vuole il tuo aiuto. Mi ospita nell’archivio. Le foto di Puglisi e di don Maurizio si trovano una accanto all’altra. Don Gabriele, mi parli di queste due preti.
“Per quanto riguarda don Puglisi a me sembra di riscontrare in molti la sua eredità, la sua ispirazione, il suo modo di servire il quartiere. Cerchiamo di incarnare il suo modo d’essere, non nel senso di fare quello che ha fatto lui, ma nel senso di provare a vivere le cose come le ha vissute e viste lui. La sua dedizione, il suo spirito di sacrificio. L’altra cosa in cui si vede la sua traccia indelebile è l’interesse delle famiglie verso l’istituzione scolastica. Poi c’è, nel suo nome, un flusso continuo, l’invasione di tanti ragazzi e ragazze, scuole, gruppi, movimenti. Mi sono chiesto cosa cercano. Secondo me l’uomo di fede che ha vissuto per la giustizia, per la legalità”.
“Il centro e il legame con la parrocchia”
Parliamo brevemente del mio casuale incontro serale o meglio notturno a metà luglio del 1993 con 3P. Prosegue don Gabriele. “Il centro lui l’ha voluto di fronte la chiesa in modo che ci fosse uno stretto legame con la parrocchia. Al centro si fa catechismo e tre volte la settimana vengono i ragazzi del liceo Danilo Dolci, che si trova a cento metri, per il recupero scolastico dei bambini del quartiere. I ragazzi del liceo non possono stare da soli, quindi ci sono sempre dei volontari della parrocchia che fanno da supervisori. Il Centro Padre Nostro, come voleva don Puglisi, è completamente slegato da finanziamenti pubblici”.
L’esempio di don Maurizio
Don Gabriele parla cercando le parole giuste ad ogni passaggio. “Maurizio Francoforte aveva una personalità fortissima, anche se silente, molto silente, non era l’uomo mediatico, ma lui ha lavorato tantissimo proprio nel silenzio, con tenacia. Ho ammirato la sua praticità, cercava e trovava soluzioni per la parrocchia, per il territorio”.
Gli chiedo quali sono le attività parrocchiali. “Oltre quelle classiche, prima del Covid abbiamo fatto molti campi scuola con altre parrocchie del nord, con altri volontari che venivano per esempio dagli oratori delle chiese del nord. Stavano qua una settimana, andavano a prendere i bambini per esempio nella zona cosiddetta degli Stati Uniti e li portavano al Padre Nostro, si cucinava, i ragazzi dormivano lì. Questo ha funzionato molto”.
Il territorio
Stati Uniti e Via Hazon e dintorni sono i luoghi più sofferenti del territorio parrocchiale. “Il problema – sottolinea don Gabriele – è che le due zone dialogano pochissimo e non collaborano, ci sono problemi diversi anche se non molto differenti, ma sono due povertà diverse. La parrocchia è come se fosse composta da tre anime che non interagiscono, quelle più problematiche degli Stati Uniti e di Via Hazon e la terza parte, preponderante, composta da famiglie che potremmo definire della classe media. Ciò a livello parrocchiale rende molto difficile costruire la comunità, anche se noi giriamo casa per casa, con un servizio che stiamo assicurando a tappeto. Nelle zone più difficili molti non aprono, le famiglie disponibili hanno comunque dei punti di riferimento religiosi pregressi”.
Don Gabriele si ferma un attimo per argomentare meglio. “Noi lo facciamo per far capire alle persone che la parrocchia è vicina a loro e che in qualunque momento ci siamo”. Mi racconta che c’è un problema di divario generazionale che non si riesce a colmare.
“Ci sono pochi giovani e molti over sessanta – precisa Don Gabriele -, quei pochi sono i figli o i nipoti del periodo di quando la comunità era fiorente con Padre Ignazio Acquisto, Don Giuè, Don Puglisi, Don Mario Golesano e Don Maurizio. È un periodo di crisi sul quale secondo me incide, per quanto riguarda i giovani, l’eccessivo utilizzo dei cellulari già da piccoli. Fanno fatica a ragionare, a lavorare sul proprio vissuto. E non è una cosa che riguarda soltanto Brancaccio”.
“Ricreiamo un tessuto comunitario”
Percepisco che la parte di parrocchia non irrilevante numericamente che appartiene al ceto medio non collabora più come nel passato. Don Gabriele concorda. “Stiamo cercando con pazienza di ricreare un tessuto comunitario”. Ma oltre le ombre, che probabilmente riguardano la vita di tutte le parrocchie, ci sono pure le luci nel racconto di don Gabriele.
“C’è il bel gruppo del coro, un gruppo famiglie, coppie di persone sposate che camminano insieme al diacono, don Angelo. Poi c’è un ottimo servizio agli ammalati, li vanno a trovare portando anche la comunione. Non c’è più la confraternita. Si collabora molto con la scuola media, con il liceo Danilo Dolci, con la scuola elementare e con qualche associazione come ad esempio Quelli della Rosa Gialla“.
“Oggi più attenzione per la legalità”
Parliamo di un gruppo attivo nel sociale che ha prodotto musical che hanno fatto il giro d’Italia con migliaia di spettatori. Non possiamo certo non toccare il tema delinquenza e della mafia. Il sacerdote ha le idee abbastanza chiare.
“La delinquenza ha un andamento sinusoidale, ci sono delle fasi più acute e delle fasi in cui il fenomeno è meno rumoroso. Ora per esempio temo quello che ogni anno si scatena contro le forze dell’ordine con le vampe di San Giuseppe. Riguardo all’antimafia, invece, c’è anche a Brancaccio una coscienza diffusa che prima non c’era. E c’è un po’ più di attenzione verso la legalità. Poi c’è sempre, non solo a Brancaccio, il virus culturale mafioso che continua a vivere”.
Un passato francescano
Prima di transitare verso l’impegno diocesano, don Gabriele ha attraversato il deserto. “Ero un fratello francescano, lo sono stato per 28 anni, a un certo punto mi è stata stretta quella forma di vita troppo rigida e per me è diventato tutto insostenibile, sia psicologicamente che fisicamente. Mi sono dovuto fermare per tre anni e chiedermi per quale motivo mi stava succedendo questo. Tale lungo periodo è stato però prezioso perché ho scoperto che il Signore mi stava chiamando ad un altro tipo di servizio. Sono in diocesi da quasi tre anni e questo di Brancaccio è il primo incarico che mi è stato assegnato. All’inizio è stato traumatico. Uscire da una forma di vita eremitica e trovarsi in trincea è stato duro durante il primo anno. Oggi devo dire che sono onorato di calpestare un territorio segnato dal sangue di un martire e di servire la gente che ha servito don Pino. La mia lunga crisi mi aiuta a stare vicino alla gente che soffre”.
“Facciamo ponte”
Da come scruta l’interlocutore durante l’ora del dialogo, questo appare chiaro. Don Gabriele cerca di catturare ogni esigenza di chi si trova di fronte a lui. Ma cosa può chiedere una comunità come quella di Brancaccio alla città e alla chiesa di Palermo?
“Bisogna rilanciare la fiducia in noi stessi come comunità, magari coinvolgendoci in piccoli gesti dove ci si chiede a vicenda un minimo di collaborazione. Nei confronti della chiesa diocesana occorre tenerla aggiornata, coinvolgerla, non isolarci, fare da ponte”.
Dalla morte di don Maurizio, dicembre 2024, la comunità aspetta che le venga assegnato un nuovo parroco, ma nel frattempo don Gabriele cerca di accompagnarla nel miglior modo possibile. Con le altre parrocchie della zona dialogate?
“Con le altre parrocchie vicine si collabora. Segnalo che intorno alla chiesa esistente nell’ex deposito delle ferrovie, che noi amministriamo, c’è una bella comunità da curare. Noi andiamo ogni domenica”.
“La fede, un terzo occhio”
Ma cosa è la fede adesso per un francescano eremita di stretta osservanza passato a lavorare sul territorio? “La mia fede è un terzo occhio. Prima la fede era con meno responsabilità, un cammino di perfezionamento spirituale personale. Oggi la mia fede si sta arricchendo di un percorso di attenzione maggiore verso gli altri. Quando si chiude il portone della parrocchia a me continuano a rimanere in testa le persone con i loro problemi e l’impegno che ci vuole per tentare soluzioni possibili. L’occhio della fede è dinamico tuttavia, cresce sempre, si arricchisce di continuo”.
Il ricordo del Papa
Nel 2018 Papa Francesco pellegrino a Palermo nei luoghi del martirio di don Pino, entrò quasi da solo a San Gaetano. Chissà quali pensieri e meditazioni si è portato appresso. Nella facciata della chiesa, che per la precisione si chiama Maria Santissima del Divino Amore e San Gaetano, ci sono da quel giorno le gigantografie del Papa e di don Puglisi. Chiedo a Don Gabriele due parole sul pontefice.
“Papa Francesco ha segnato il futuro della chiesa, che dopo di lui non può più tornare indietro. Per quanto riguarda me, spesso mi sono stupito che la mia crisi spirituale e la sua soluzione è coincisa con questo papato e con Brancaccio. Non riesco a non collegare questi due aspetti”.
La porta sull’altare
Poi mi porta un po’ a visitare la chiesa. Rivedo la porticina che sbuca sull’altare. Da chierichetto entravo e uscivo da lì. Facciamo una foto davanti la mensa in legno semplice che fu di Puglisi. Siamo alla porta. “Quando verrà eletto il nuovo parroco lo saprai dai giornali”. Replico. “Magari, chissà…”. “Quello che vuole il Signore”, è il suo saluto finale.
Vado a riprendermi l’auto, ripasso dal Centro Padre Nostro. Prima era chiuso adesso è aperto con tanti giovani e un frate in visita. Don Pino è ancora in questo centro pagato a caro prezzo.
La sera del 15 settembre 1993 telefonò dalla cabina che c’era sul marciapiede di fronte al centro. Il commando mafioso di morte vedendolo decise di agire subito. Ma non sapevano che, poverini, come recitano Ficarra e Picone nel loro bellissimo pezzo su don Puglisi, ci sono diverse nascite. Parto naturale, cesareo, in acqua e parto per uccisione. Ci auguriamo che la vita di don Pino, che non è finita, riesca ad indicare alla sua parrocchia e alla Chiesa palermitana sempre più la strada da percorrere.




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